Al municipale l'opera verdiana nell'alllestimento firmato da Pierluigi Pizzi
Con Stiffelio, lo scorso 19 dicembre il Teatro Municipale Piacenza ha inaugurato la Stagione Lirica 2025-2026 affidandosi al titolo forse più appartato dell’intero catalogo verdiano. Incastonato tra Luisa Miller e Gerusalemme, versione italiana del monumentale Jérusalem, di poco successivo a Macbeth e ai vari Attila, il Corsaro, La battaglia di Legnano, insomma, ai tanti figli dei cosiddetti “anni di galera” – Stiffelio già dischiude prospettive nuove e decisive: più che esito totalmente compiuto, cantiere, laboratorio drammaturgico e psicologico di sorprendente modernità, snodo essenziale di quel percorso che avrebbe condotto il genio di Busseto, nel giro di una manciata di anni, ai grandi titoli della piena maturità. L’allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi, patriarca dalle 95 primavere compiute e dall’illuminata, irriducibile vitalità dello scavezzacollo, ne ha colto con la consueta lucidità la natura profonda, scegliendo ancora una volta la strada di un teatro interiore, distante dall’urticante, irripetibile lettura offerta nel 2017 dal compianto Graham Vick nello scrigno del Teatro Farnese di Parma.
Qui, ad accogliere lo spettatore, era un’eleganza austera quanto rarefatta, capace di interrogare il dramma dall’interno esaltandone la trasparenza della scrittura e la sua sottile, insinuante aderenza alla torbida tematica che, nel debutto triestino del 1850, aveva certamente contribuito ad un’accoglienza di certo non calorosa. Le scene – chiese e palazzi, un cimitero, legati dal fil rouge di colonne e marmi – qui restituivano, nel loro rigoroso bianco e nero, un universo nordico di architetture solenni quanto fredde, abitate da figure avvolte in cappelli e mantelli, ombre remissive che si muovevano a capo chino, tutte in castigati abiti scuri, nel segno della rigorosa devozione protestante. Un mondo rigidamente codificato, attraversato tuttavia da pulsioni primarie — desiderio, inganno, colpa, vendetta, fino al perdono finale — che, in una macchina drammaturgica di squisita fattura, insinuano l’avvincente tarlo di un umanissimo tormento, ancor più doloroso nell’intrinseco dualismo tra dimensione individuale e sociale, tra uomo e pastore. In questo contesto, l’impronta impressa dalla direzione di Leonardo Sini, valorosa bacchetta alla guida dell’Orchestra dell’Emilia Romagna “Arturo Toscanini”, ha lasciato emergere con chiarezza la preziosa, ambivalente natura di Stiffelio come opera di frontiera: una cuspide tra mondi contigui eppure già intimamente separati in cui Verdi osa sul sottile crinale di una scrittura meno irruente e più sorvegliata, costruita su un lavoro di scavo psicologico e di sottrazione, su un uso sottilmente audace della trama musicale, delle insinuazioni, dei trasalimenti, già protesa verso i titoli a venire. Nelle pieghe di Stiffelio sembrano abitare già i tormenti di Violetta, la marmorea autorità di padre Germont, ma anche alcuni trapassi che troveranno piena espressione in Rigoletto. Già l’ampia sinfonia introduttiva delineava con nettezza questo orizzonte: non semplice ouverture d’atmosfera, ma vero preludio narrativo, attraversato, nell’efficace restituzione di Sini, da una tensione trattenuta in un fraseggio cesellato con attenzione quasi cameristica. La tromba di Matteo Fagiani, voce plastica, già parlante, del dramma, affiorava dalla superficie orchestrale come monito etico, prima ancora che come avvolgente invito ad alzare il sipario. L’attenzione al respiro della scena e all’escursione del pensiero del pastore ha restituito uno Stiffelio teso e riflessivo, capace di sostenere con naturalezza un dramma morale che vive più di conflitti interiori che di esplosioni plateali.
Sul piano vocale, Gregory Kunde ha affrontato il ruolo titolo con l’intelligenza e l’autorevolezza del grande interprete. A dispetto dell’età, il legato rimane esemplare, la gestione della frase di bella eleganza, il controllo dei volumi sempre funzionale alla parola e al senso del dramma; qualche fisiologico allargamento nel passaggio tra zona grave e zona acuta non ha intaccato una prova complessivamente svettante, sostenuta da carisma scenico e da una profonda adesione al tormento del personaggio, culminante nel magnifico discorso finale di fronte all’assemblea, autentico fulcro etico dell’opera. Accanto a lui, la Lina di Lidia Fridman si è imposta fin dal primo apparire per nobiltà d’accento e intensa introspezione. La voce, scura e vellutata, ha restituito con coerenza il travaglio interiore del personaggio, disegnando una figura raccolta e dolente, mai esibita, capace di farsi autentico centro emotivo della vicenda. Vladimir Stoyanov ha offerto uno Stankar di grande spessore, capace di dosare con consumato mestiere furore e leggerezza.
Di solido rilievo anche i personaggi secondari: Carlo Raffaelli era un Raffaele di nobile misura, trattenuto nel suo silenzioso conflitto; allo stesso modo, incisivi erano il Federico di Paolo Nevi, delineato con fraseggio netto e accento vigile, e lo Jorg generoso di Adriano Gramigni. Insieme alla valida Dorotea di Carlotta Vichi, complessivamente puntuali ed efficaci erano i contributi del coro preparato da Corrado Casati: vera comunità giudicante, presenza morale costante e incombente, “un mondo di gente che parla sottovoce”, per dirla con le parole dell’indimenticabile Vick.
Ovazioni, teatro esaurito, partecipazione viva e consapevole da parte di un pubblico che applaude a scena aperta, commenta ad alta voce con apprezzamenti agli interpreti, urla “Viva Verdi”, come chi, a teatro, si sente a casa. E così, dopo la trionfale impresa della Trilogia Popolare, andata in scena poco più di un mese fa in una formula di raro coraggio e bellezza, Piacenza ha rimesso in moto la sua rodata e gioiosa macchina delle meraviglie, inaugurando la stagione con un titolo che ha potuto, una volta di più, svelarsi non come rarità d’archivio ma come snodo essenziale e tutt’altro che marginale nel percorso verdiano.