L'ultima opera verdiana trionfa al Teatro Municipiale: protagonista Luca Salsi
L’ultima delle ventisette, la prima dell’anno in cartellone. Al Municipale di Piacenza, il 2020 si è aperto lo scorso 24 gennaio, con replica domenica 26, nel segno dell’attesissimo Falstaff, capolavoro estremo di un Verdi ottantenne che, complice la prodigiosa mano di Boito, lungi dall’appendere la penna al chiodo guarda di nuovo al prediletto Shakespeare ed estrae dal cappello magico un’opera buffa, l’unica - se si esclude la sfortunata “Un giorno di regno”- del suo catalogo. Un’opera in cui il genio di Busseto sembra inventare e reinventare una scrittura così straordinariamente visionaria, così complessa e protesa verso inedite soluzioni, da scompaginare il suo proverbiale tratto ed occultarlo sotto una patina trascolorante. Ma, soprattutto, un’opera di esilarante, dolceamaro humor sulla vecchiaia, scritta da un coetaneo del protagonista che, come lui e probabilmente attraverso di lui, fa i conti con la propria vita, quando il fiore degli anni è ormai lontano.
A vestire i panni del nobile decaduto alle prese con maldestri corteggiamenti ad improbabili dame era un Luca Salsi il cui nome oggi è il biglietto da visita del belcanto italiano nel mondo, qui alle prese con il suo debutto nel ruolo. Guidato dalla puntuale, ma mai pungente, bacchetta di Jordi Bernàcer alla testa dell’Orchestra Toscanini, il baritono di S. Secondo Parmense ha calato tutte le carte di una vocalità scultorea quanto capace di quel guizzo divertito e tragicomico di cui la partitura è disseminata, accompagnando il pubblico nell’anima di Sir John. Una parola scenica che, di quadro in quadro, prendeva corpo con crescente aderenza, fino alla scena finale della foresta dove un Falstaff ormai in balia della vendetta delle allegre comari vaga, disorientato, in attesa della beffa finale. A contendersi l’uragano di applausi piovuti a chiusura di sipario, gli altri interpreti di un cast tra i più belli mai circolati qui a Piacenza: su tutti, il Ford plastico ed incisivo di Vladimir Stoyanov e la Nannetta cristallina di Giuliana Gianfaldoni, perfetta a contrappuntare – insieme all’ottimo Fenton di Marco Ciaponi – l’idea di un amore giovane e scalpitante alle improbabili velleità amatorie del vecchio Falstaff. Apprezzabili anche la (giustamente) civettuola Alice disegnata da un’elegante Serena Gamberoni e la Meg di Florentina Soare. Con loro, la Quicky di Rossana Rinaldi ed i bravissimi Marcello Nardis e Graziano Dallavalle, rispettivamente Bardolfo e Pistola di gran smalto. Superba nel combinare essenzialità ad efficacia evocativa la regia di Leonardo Lidi, al debutto nell’opera ma perfettamente a suo agio nel teatro shakespeariano, come ben rivelava l’efficacia con cui, da pochi essenziali elementi – il trono, ultimo superstite di un passato di privilegi, la cesta dei panni calata dall’alto alla fine del secondo atto, con dirompente effetto, la gigantesca quercia lattea su sfondo nero in un bosco quasi onirico, i quattro mimi tuttofare en travesti, come nel miglior teatro elisabettiano – ricostruiva e muoveva l’intera vicenda. Le scenografie di Emanuele Sinisi erano ravvivate ad arte dalle soluzioni illuminotecniche di Fiammetta Baldiserri e vedevano i bellissimi costumi di Valeria Donata Bettella. Successo storico per il teatro diretto da Cristina Ferrari.