Recensioni - Opera

Più suggestione che recitazione nel “Sogno” di Tato Russo

“Sogno di una notte di mezza estate” è probabilmente il capolavoro di Shakespeare nell’ambito della commedia, considerando la “Tem...

“Sogno di una notte di mezza estate” è probabilmente il capolavoro di Shakespeare nell’ambito della commedia, considerando la “Tempesta” come un’opera più difficilmente incasellabile in un genere specifico, e come tutti i capolavori offre infinite possibilità interpretative ed espressive ma allo stesso tempo altrettante difficoltà nella realizzazione.
Il testo, lo si evince dal titolo stesso, vive in un continuo equilibrio tra una dimensione reale ed una dimensione onirica i cui confini non sono mai nettamente tracciati, anzi, in molti casi si ha la sensazione che il sogno in realtà altro non sia che la realizzazione di quelle pulsioni sensuali e sessuali che nella vita “canonizzata” devono restare sopite e che non hanno occasione di esprimersi. L’opera infatti parla sostanzialmente di uomini, dei loro istinti amorosi e delle loro azioni finalizzate alla realizzazione di questi ultimi, anche quando questi vengono metaforicamente attribuiti al mondo degli elfi o delle fate. Per cui alla fine dove sia la realtà e da che parte stiano i veri sentimenti delle persone non è sempre facile definirlo, (non va dimenticato inoltre che l’autore gioca fino in fondo con questa ambiguità concludendo la commedia con una recita nella recita, in cui gli attori interpretano il ruolo di altri attori che interpretano la parodia di quel sentimento amoroso attorno al quale si sono svolti gli eventi sino ad allora).

Tato Russo nel suo allestimento sceglie di puntare quasi esclusivamente sulla componente onirica e fiabesca della messinscena, sia inserendo le figure di una mamma col bambino che periodicamente compaiono in scena quasi a significare che tutta la vicenda altro non è che una favola raccontata, sia spettacolarizzando tutte le scene riservate al mondo degli spiriti. Ne esce così una messinscena di straordinario impatto visivo, in cui un magistrale connubio di luci (curate da Paolo Latronica), musiche (adattissime, di Patrizio Marrone), coreografie (di Aurelio Gatti), scene (di Uberto Bertacca) e costumi (veri e propri capolavori di Giusi Giustino) danno vita a suggestioni di rara efficacia. Assolutamente impossibile descrivere l’effetto suscitato dall’apparizione delle fate e dal loro costante ripresentarsi, tanta era l’inventiva manifestata dal regista, peraltro eccezionalmente supportata in fase di realizzazione. Un certo tipo di teatro va vissuto in prima persona e non può essere raccontato.

Purtroppo però, il teatro è costituito anche da parole, che in un modo o nell’altro devono necessariamente arrivare al pubblico, e da attori che sono i veri officianti di questo rito.Da questo punto di vista, invece, lo spettacolo ha mostrato più di una smagliatura.
I personaggi soprannaturali quali Oberon, Titania, Puck e gli spiriti sono stati risolti in modo abbastanza particolare, ovvero affidati a mimi e ballerini che agivano sulla base di voci registrate, perciò, trattandosi di playback in ultima analisi non si può neanche parlare di recitazione. Alla fine quindi gli unici veri attori in scena erano gli innamorati e gli artigiani, che, per motivi diametralmente opposti, hanno reso le loro scene spesso lente e poco incisive nello svolgimento. Se infatti per gli innamorati (Giuseppe Russo, la cantante Arianna, Daniele Russo e Selvaggia Quattrini) i problemi scaturivano da una presumibile scarsa esperienza sul palcoscenico, che li ha portati ad esprimersi in un generico mezzo-forte, privo di modulazioni, che alla fine rendeva le loro scene sostanzialmente monocordi, gli artigiani (lo stesso Tato Russo, Ernesto Mahieux, Rino di Martino e Massimo Sorrentino) davano l’impressione di agire in preda a quello scarso entusiasmo che nasce dalla routine di chi ha ormai svariate repliche sulle spalle. Per cui, nonostante la loro parte fosse stata quasi raddoppiata, la comicità che dovrebbe scaturire dalle loro scene mi è parsa stiracchiata e comunque raramente efficace.

Alla fine la sensazione avuta è stata quella di uno spettacolo in cui il regista abbia sviluppato un’insieme di idee straordinarie ma che non sia riuscito, o non si sia preoccupato, di integrarle con quelle situazioni che invece erano necessarie per portare avanti lo svolgimento della vicenda e quindi permetterne al pubblico la comprensione. Va peraltro sottolineato che in questo libero adattamento, contando tagli e riscritture, non più della metà del testo era quella originale di Shakespeare.
In conclusione un allestimento dal magnifico impatto estetico, nel quale però si perde la componente più straordinariamente umana che, a mio avviso, del “Sogno” è elemento portante.

Davide Cornacchione (22/7/01)