Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi
Quando l’Arte incontra il talento, il Genio esprime la sua massima creatività producendo “il capolavoro”! Ci riferiamo al “dittico” melodrammatico prodotto nell’ambito della Trilogia d’autunno 2024, intitolata Eroi erranti in cerca di pace, posta a conclusione della 35esima edizione del Ravenna Festival presso il Teatro Alighieri: Il ritorno di Ulisse in Patria di Claudio Monteverdi e Didone e Enea nel giorno di Santa Cecilia di Henry Purcell.
Il Genio in questione è Pier Luigi Pizzi, artista poliedrico, osannato da Rodolfo Celletti come massimo regista dell’opera barocca e rossiniana sin dagli ultimi anni settanta. E nella città dai ricchi mosaici bizantini, il Maestro ha firmato la regìa, le scene e i costumi di un progetto di notevole qualità artistica avvalendosi della sua inveterata e consolidata esperienza, arricchita e plasmata dalla visione musicale di uno dei massimi esperti in direzione dell’opera barocca, Ottavio Dantone.
La genialità del novantaquattrenne Pizzi si rivela nel tenere insieme, una sera dopo l’altra, in un unico dispositivo scenico, le due opere molto diverse tra loro ma legate da un fil rouge, la guerra di Troia. Il titolo della tetralogia nonché il filo conduttore del dittico appaiono quasi un monito a riflettere sulle catastrofiche conseguenze del conflitto in essere in Medio Oriente per il quale non si intravede un segnale di pace; una guerra annosa che non conosce vinti, né vincitori, causa di una generale distruzione e sofferenza che lede l’animo umano. L’architettura scenica è dunque la medesima: un ampio spazio bianco con grandi porte, un voluminoso luogo della memoria dove azioni e atmosfere mutano a seconda degli intrinseci significati del dramma e della simbologia di arredi, oggetti e costumi, grazie anche al sapiente gioco di luci firmato da Oscar Frosio.
Ci riferiamo ora al capolavoro monteverdiano. Al centro della scena si staglia verso l’alto il lungo fusto di un albero di ulivo impiantato in una roccia, simboleggiante sia la forza dell’amore coniugale tra l’eroe d’Itaca e Penelope, sia l’albero della nave attraverso la quale Ulisse ha peregrinato a lungo in terre diverse prima di raggiungere la mèta; un telaio con panca e un letto, anch’essi candidi, completano la scena nei laterali del palco, un carro e una nave la movimentano rappresentando l’arrivo di Odisseo a Itaca, lì accompagnato dai Feaci. Sul carro, la rappresentazione degli elementi che segnano il destino dell’uomo esponendolo alle fragilità del suo “essere”: Tempo, Fortuna, Amore. Questi aspetti della vita sono espressi nell’opera ed esaltati drammaturgicamente nel Prologo al libretto, scritto da Giacomo Badoaro, e tradotti in scena con efficace impatto visivo, musicale e interpretativo. Ecco, dunque, che il controtenore Danilo Pastore mette a nudo il suo corpo interpretando con splendida voce e con riservata pudicizia l’Umana Fragilità; il basso Gianluca Margheri, di nero vestito, con velo sul viso e due grandi ali fissate sul busto, tuona con voce possente la gravità del Tempo che pesa sull’umana sorte come una scure cui non si può sfuggire; il soprano Chiara Nicastro, nei panni della Dea sorda e bendata, con ampio e lungo abito rosso, colpisce per la chiara voce con cui canta le gioie e le ricchezze e che a modo suo dispensa ai fortunati; il soprano Paola Valentina Molinari, con calzamaglia e corta tunica rossa, si disimpegna bene nel ruolo di Amore munito di strale.
Nell’interpretazione dei personaggi omerici, i cantanti appaiono agevolati dall’estrema bellezza della musica monteverdiana, composta da splendidi recitativi e ariosi scritti dal compositore cremonese in base alla “seconda pratica”: modalità compositiva che conferisce forza e vitalità ai versi attraverso una musica che muove gli “affetti” e i sentimenti umani, rafforzando il senso e il significato delle parole.
Ecco, dunque, che il contralto Delphine Galou, nei panni di una Penelope in tunica ora bianca, ora nera, pur esibendo una vocalità opaca, poco risonante e senza punta, è apprezzata per l’interpretazione scenica del lamento iniziale, “Di misera regina”, del pezzo “Illustratevi o cieli” e del duetto con Ulisse, “Sospirato mio sole”, numeri posti a conclusione del dramma quando la fedele donna riconosce l’adorato coniuge e gioisce nel suo ritrovato abbraccio. Bravo è il baritono Mauro Borgioni come Odisseo, re d’Itaca. La sua voce solida e vigorosa trasmette la forza emotiva, il coraggio e la perseveranza del personaggio interpretato, l’energia di un uomo che sa superare i limiti della fragilità umana, vincere sfide e ostacoli che si frappongono nel viaggio della vita. L’incantevole monologo e recitativo monteverdiano “Dormo ancora, o son desto?” e il successivo arioso “O fortunato Ulisse” sono pezzi di incantevole bellezza che il nostro interpreta con chiaro stile e abilità tecnica. Non da meno è il soprano Arianna Vendittelli, una Minerva spigliata nell’azione, precisa nell’intonazione, abile nella tecnica che colpisce per l’indubbia bravura quando intona “Io vidi per vendetta” e “O coraggioso Ulisse”, ariosi con cui la Dea rassicura l’Eroe della sua protezione celeste. Non fa breccia nel cuore di Penelope la chiara e penetrante voce di Charlotte Bodwen, una lussuriosa Melanto che tenta inutilmente di convincere la dolente regina ad abbandonarsi alle proposte amorose dei pretendenti Proci; sa tuttavia irretire con i suoi amorosi giochi il bell’Eurimaco, interpretato dal giovane tenore, Žiga Čopi, dalla voce morbida, flessibile e di straordinaria bellezza. Tra i personaggi, non passa inosservata la minore età dell’interprete Ulisse rispetto al figlio Telemaco, poco più che ventenne nella vicenda omerica. Un buon trucco e parrucco, fatto ad hoc per il brizzolato tenore, Valerio Contaldo, che dispiega una buona e risonante vocalità, avrebbe ridotto l’apparente divario anagrafico. Bella è la presenza scenica degli dèi in chitoni viola, Nettuno col suo tridente, Giove che tuona dall’alto dell’Olimpo per mezzo di un’aquila sua messaggera, sul palco con tanto di falconiere. Si tratta di Federico Domenico Eraldo Sacchi e Gianluca Margheri, due bassi apprezzati per la dritta postura e una buona espressività vocale, rispondenti alle caratteristiche dei numi. La scena si vivacizza con l’arrivo di Robert Burt, calato con brioso piglio nel personaggio del piccolo gigante, Iro, il buon mendicante che chiede cibo in quantità alle mense di Itaca ed entra in lotta, soccombendo, col travestito Ulisse perché non mangi prima di lui: “Se sei qui per mangiar son pria di te”. La sua buona voce da tenore come la prestanza scenica si apprezzano in ogni suo intervento vocale. La musica raggiunge punti di armoniosa bellezza nelle parti polifoniche intonate dai Proci, come in “Amor è un’armonia”, “Lieta, soave gloria”, in cui Jorge Navarro Colorado (Anfinomo, tenore), Danilo Pastore (Pisandro, controtenore) e Federico Domenico Eraldo Sacchi (Antinoo, basso) esibiscono, in raffinati terzetti, eleganti vocalità in stile madrigalistico. Si tratta di autentici gioielli armonici simili a quelli inseriti nell’VIII libro dei Madrigali Rappresentativi di Monteverdi in cui le linee melodiche si apparentano a vere e proprie “pitture sonore”. Negli altri ruoli del dramma, si segnala il bravo Luca Cervoni (tenore), un Eumete che accoglie Ulisse a Itaca offrendogli dimora e regala all’uditorio raffinate interpretazioni come negli ariosi “O gran figlio d’Ulisse” e “Colli, campagne e boschi”; la buona Giunone di Candida Guida (contralto) e Margherita Maria Sala, come Ericlea (contralto).
Per oltre due ore e mezza l’ottima Accademia bizantina ha esibito una pregevole interpretazione della musica monteverdiana grazie all’indefettibile direzione di Ottavio Dantone al clavicembalo, che con leggiadre mani segnava ogni attacco favorendo il corretto e rigoroso rapporto tra l’ensemble e gli interpreti sul palco.
Vivo successo per tutti, tributato alla fine dello spettacolo con lunghi applausi e standing ovation da parte del pubblico presente in Teatro ove appariva un tutto esaurito!
Giovanna Facilla