Recensioni - Opera

Riappaiono gli spettri ma non quello della regia

Quando un regista abitua il pubblico a spettacoli dotati di una marcata personalità, magari discutibili nelle scelte, ma che comun...

Quando un regista abitua il pubblico a spettacoli dotati di una marcata personalità, magari discutibili nelle scelte, ma che comunque rispecchiano un’idea forte, quali quelli realizzati da Lievi a Brescia negli ultimi anni, è difficile non restare quantomeno perplessi nel trovarsi invece di fronte ad un allestimento che tutto sommato dà più l’idea di una "presentazione" del testo che di una sua vera e propria rilettura. Questa è un po’ la sensazione che si prova uscendo da questa nuova produzione di "Spettri" realizzata dallo stabile bresciano, ovvero di aver assistito ad una messinscena curata con efficiente professionalità, ma che d’altra parte non manifesta alcun tratto di vera originalità o che comunque la caratterizzi in modo deciso.

Non che con questo mio atteggiamento voglia contestare le regie che si prefiggono di rappresentare il testo così come è, senza particolari stravolgimenti ma in maniera lineare, per permettere alla parola scritta di emergere e di giungere alla platea nel modo più naturale e libero da costrizioni o sovrastrutture. Anzi, trovo che questo tipo di scelta, quando riesce, possa raggiungere un’efficacia straordinaria, però, perché questo avvenga, si deve operare un lavoro capillare sugli attori, perché possano ricreare un’atmosfera che a questo punto si basa esclusivamente sul loro essere in scena, sul loro modo di agire sul palcoscenico, e questo evento, a mio avviso, stavolta non si è compiuto.

Per quanto riguarda l’impostazione generale la scelta di trasferire la vicenda negli anni ’80 di questo secolo francamente mi sembra lasci un po’ il tempo che trova; si sarebbe potuta tranquillamente farla passare per la Spagna franchista o per la Grecia dei colonnelli che non sarebbe cambiato alcunché, tanto era generica l’ambientazione. Da questa lettura nasce anche la decisione di attualizzare il male di Osvald facendolo passare per AIDS. In questo caso devo francamente ammettere che se non l’avessi letto sul programma di sala, difficilmente ci sarei arrivato. Oltretutto trovo che il cavillo sulla natura della malattia sia tanto inutile quanto insignificante, visto e considerato che l'autore non fa riferimento a qualcosa di specifico, e soprattutto mai a qualcosa di organico, ma sempre a qualcosa di più specificamente radicato nella mente. Allora, se invece dei registi vogliamo giocare ai clinici, perché non alzheimer, visto e considerato che tra le patologie di più recente individuazione è quella che più di tutte si avvicina al "rammollimento cerebrale" cui si fa riferimento?
Oppure, invece, la malattia non è semplicemente una sorta di "male di vivere" tipo depressione (questa sì estremamente attuale) ed il riferimento ad una sua "organicità" ed eventuale ereditarietà non deriva più da teorie simil-lombrosiane, molto in voga all'epoca della stesura del dramma, secondo cui il problema mentale e quello fisico devono per forza essere tutt’uno, e tutto questo non ha poi alla fine alcuna importanza specifica?

Per il resto dell'operato di Lievi francamente non trovo ci sia molto da dire: un lavoro sugli attori che si è basato essenzialmente nel fissare le entrate e le uscite, nel farli stazionare in scena e passeggiare qua e là tanto per riempire i vuoti. Non un gesto, non un movimento, non un atteggiamento che sia uscito dalla genericità per diventare veramente significativo, per tacere della tanto scontata quanto evitabile apparizione degli spettri fuori dalla casa al termine della prima parte.
Obbiettivo del regista era quello di rendere il testo il più dinamico possibile, cercando di non rallentare la sequenza degli eventi soffermandosi o compiacendosi troppo dei singoli momenti, atteggiamento da lui considerato limitante e riduttivo. Per questo si è lasciato spazio agli aspetti umoristici (ma ce ne sono poi veramente) ed il tutto è stato condotto a conclusione con mano spedita.
A mio avviso questa scelta, anziché alleggerirne la gravità ha portato ad una lettura superficiale dell'opera dalla quale non è emerso alcun tratto peculiare.

Tutto ciò ha obbligato gli interpreti a fare leva più sulla loro professionalità e sul loro talento intrinseco che su una lettura ben definita, e da ciò sono emersi meriti e limiti. Franca Nuti ha retto straordinariamente il ruolo di Helene ma c'era da dubitarne? la questione semmai è un'altra: la Nuti è una grandissima attrice di suo, e qui non ha mancato di darne prova, ma quanto c'era di "particolare" in questa interpretazione e quanto invece era semplicemente un'attingere al proprio repertorio ed alla propria maestria?
Discorso analogo per Massimo Foschi, con la sostanziale differenza che il suo pastore Manders è apparso eccessivamente sopra le righe per risultare veramente efficace. La forza dell'ipocrita e del bigotto erano totalmente assenti, ed il personaggio ne è uscito estremamente ridimensionato, quasi neanche lui fosse stato veramente convinto di ciò che stava sostenendo.
Scenicamente presente ma al contempo incolore anche la prova di Francesco Migliacco quale Osvald. Non fosse stato per la Nuti tutto il dialogo tra madre e figlio con cui si conclude l'opera sarebbe risultato una inconsistente appendice.
Sandra Toffolatti ha esibito anche in questo caso il suo registro mezzoforte con il quale passa sopra qualunque cosa. Sicuramente qualche tentativo di modulazione in più rispetto alla "Sposa persiana" c'è stato, ma non mi viene da pensare certo a lei quale paradigma di Regine. Funzionale l’Engstrand di Marco Toloni.

Il vero punto di forza di questo allestimento alla fine si è risolto nella componente visiva. Bellissime le scene di Csaba Antal che rappresentavano una prospettiva accidentale delimitata da vetrate che si aprono su un bosco costituito da tronchi d'albero splendidamente illumunati dalle superbe luci di Gigi Saccomandi, che per l'ennesima volta si dimostra come uno dei più grandi progettisti luci in circolazione.
In sostanza una grande cornice per uno spettacolo che francamente non mi sento di definire brutto o malriuscito, però inutile.

Davide Cornacchione