Recensioni - Opera

Rigore formale per un Trouvère antiteatrale

Robert Wilson rimane fedele al suo stile per il nuovo allestimento dell’opera verdiana a Parma

Per l’inaugurazione del Festival Verdi 2018, Parma si affida ad un artista di fama internazionale come Robert Wilson che mette in scena la versione francese del Trovatore, Le Trouvère appunto, nello sfarzoso e storico Teatro Farnese.

È compito di un festival che vuole definirsi tale indagare modi nuovi e contemporanei di mettere in scena Verdi ed in questo senso le ultime operazioni del Festival Verdi di Parma non possono essere che lodate. Da alcuni anni a questa parte infatti la produzione di punta viene affidata ad un grande e rinomato regista internazionale: due anni fa Greenway, l’anno scorso Vick e quest’anno appunto Robert Wilson.

Nella presentazione e note di regia Wilson dice: “Il mio lavoro è formale, sono un’artista visuale per cui immagino tutto dal punto di vista dello spazio”. Difatti luci, spazialità e scenografia sono di un estremo rigore formale in linea con la cifra stilistica dell’artista. La scena viene inquadrata in un imponente cubo dalle sfumature azzurre da cui si aprono porte e finestre che si colorano di luci azzurre e rosse. La luce, dettagliatissima, staglia solamente i volti dei personaggi che per la massima parte rimangono immobili in pose rigidamente predefinite. Il coro è una macchia nera che si staglia in controluce.

Wilson prosegue: “Il movimento può essere puro e indipendente e quello che vediamo in scena non deve essere per forza connesso con quello che ascoltiamo”. Difatti troviamo in scena fin dall’inizio un arzillo vecchietto barbuto che ascolta compiaciuto e non manca ogni tanto di fare qualche giretto per il palco. Nel prosieguo entrano una giunonica balia con carrozzina, alcune bambine accompagnate da una governante e una pompa a pozzo ottocentesca. Sullo sfondo a tratti vengono proiettate immagini di vecchie cartoline d’epoca e un mare sabbiato sul quale si libra un cigno. Il tutto estremamente curato e splendido da vedere. Per quanto riguarda le possibili interpretazioni ci adeguiamo a quanto dichiarato dall’artista e non le cerchiamo perché probabilmente semplicemente non ci sono.

La regia è assolutamente statica e antiteatrale: i cantanti entrano rigidi vengono più o meno a proscenio e se ne vanno dopo aver assolto i loro doveri canori. Solo al momento dei ballabili, presenti solo in questa versione francese dell’opera, la scena si anima con una serie di boxeur con guantoni rossi che corrono per il palco ad intervalli regolari e poi si sbizzarriscono in una serie di improvvisazioni più o meno definite. Ad essi si aggiungono poi dei bambini boxeur e la balia prima citata anch’essa munita di guantoni rossi. Il tutto supervisionato dal nostro arzillo vecchietto che siede compiaciuto a rimirare il bailamme esagitato che via via aumenta. Finito questo intervallo movimentato si torna all’assoluta staticità fino alla fine dell’opera.

Il tutto è ovviamente contestabile, discutibile, ma sicuramente interessante e con una cifra stilistica definita. Il problema maggiore risiede nella staticità prolungata nel tempo. Se infatti per il primo tempo ancora ci si appaga del nitore visuale, alla lunga questo viene acquisito e si inizia a pensare che in fondo si sta assistendo ad una sofisticata versione in forma di concerto. Ne deriva che alla fine la cosa migliore è proprio l’intermezzo dei ballabili in cui le idee di Wilson si sbizzarriscono in un quadro d’arte improvvisativa commentato da una musica tutto sommato piacevole. Finito questo sprazzo di movimento, spiace dirlo, ritorna la noia poiché ormai il dato scenico, per quanto perfetto, è stato acquisito e si sente la mancanza del teatro e di una vera drammaturgia.

Roberto Abbado dirige adeguandosi all’idea registica, smorza i toni, amalgama i suoni, non forza mai i volumi. Fra gli interpreti spicca Le Comte de Luna di Franco Vassallo, che propone una voce sicura e timbrata e strappa un lungo applauso alla fine della sua aria. Altrettanto convincente la Lèonore di Roberta Mantegna, mentre Nino Surguladze risulta adeguata come Azucena senza tuttavia impressionare. Corretto, musicale e omogeneo il Manrique di Giuseppe Gipali che sconta però una voce troppo piccola per il personaggio. Bella linea di canto per il Fernand di Marco Spotti. Poco si può dire sull’interpretazione, essendo i cantanti costretti all’assoluta immobilità.

Pur con tutte le riserve, soprattutto dal punto di vista teatrale, resta incontrovertibile che di questo tipo di proposte ha bisogno l’opera in Italia e soprattutto un festival che si vuole porre l’obbiettivo di indagare nuove strade per mettere in scena Verdi.

Sparute contestazioni non hanno inficiato un successo convinto a fine serata.

R. Malesci (07/10/18)