Recensioni - Opera

Riuscita Gioconda ottocentesca a Verona

Presentata al Teatro Filarmonico una bella edizione del poliedrico capolavoro di Amilcare Ponchielli

Come penultimo titolo della stagione 2022 del Teatro Filarmonico, l’ente Arena propone una bella e accurata produzione di “La Gioconda”, capolavoro del compositore cremonese Amilcare Ponchielli, ormai assente da Verona dall’estate del 2005, quando venne proposto all’Arena nella sobria e imponente versione firmata allora da Pier Luigi Pizzi.

Dramma romantico per eccellenza, è infatti tratto da “Angelo, tyran de Padoue” di Victor Hugo, si innerva in realtà di tratti scapigliati e corruschi grazie al libretto, largamente adattato rispetto all’originale, di Arrigo Boito, che si firmò con lo pseudonimo di Tobia Gorrio.

Da una parte troviamo dunque un libretto innovativo per l’epoca, raffinato e linguisticamente azzardato, con una progressione di avvenimenti comunque chiara, unita ad un gusto crepuscolare e truculento tipico del poeta e compositore originario di Padova. Su detta materia si innesta la musica di Ponchielli, che subisce le influenze dei versi boitiani, piegandosi spesso ad un canto declamato e all’utilizzo di una struttura a leitmotiv come per il tema di Gioconda e della madre cieca: Wagner non si era affacciato nel panorama italiano senza aver lasciato qualche reminiscenza. Di contro Ponchielli rimane spesso fedele a schemi melodici schiettamente italiani e ripiega appena possibile sulla sicurezza del mestiere e della tradizione, affidando ai solisti arie di stampo convenzionale e ricorrendo spesso a numeri chiusi.

L’opera fu rimaneggiata dopo il grande successo della prima alla Scala, per poi rimanere definitivamente in repertorio con unanime consenso di pubblico per tutto l’Ottocento e la prima parte del Novecento.

Titolo “monstre” per i teatri italiani oggi, con la sua struttura da Grand Opéra alla francese con tanto di ballo nel terzo atto – la celeberrima “Danza delle ore” – e un cast di ben sei voci di primo piano, oltre che una nutrita schiera di comprimari. E poi c’è la Venezia scura e minacciosa immaginata da Boito nella sua trasposizione, con ampie concessioni al gusto dell’orrido in voga fra la poesia scapigliata milanese di quegli anni – basti ricordare alcune tetre liriche di Emilio Praga come “Orgia” o “Suicidio” – e le atmosfere noir intrise di morte e mistero che si mescolano a regate, affollate feste di carnevale e processioni religiose.

Insomma, un lavoro poliedrico, sfaccettato, che richiede una produzione con disponibilità di mezzi e maestranze professionali in grado di reggere la sfida. Cosa che con gusto e competenza è riuscita all’ente Arena e al bravo Filippo Tonon, che crea uno spettacolo ambientato negli anni Settanta dell’Ottocento – il periodo di composizione dell’opera – supportato dagli accurati costumi stile secondo impero di Carla Galleri.

Filippo Tonon, che firma anche la scenografia, sceglie un taglio sobrio, ma molto funzionale, richiamando il candore dei marmi rinascimentali della serenissima. Sullo sfondo un grande muro marmoreo, in cui scorre una profonda crepa a simboleggiare la decadenza ormai inarrestabile di Venezia rispetto ai fasti del passato. Due portali mobili – che ricordano nella fattura il decoro esterno della chiesa veneziana di San Zaccaria – scorrono su binari quasi a proscenio, creando in modo rapido ed efficace i diversi ambienti che si susseguono senza soluzione di continuità. I movimenti di questi portali e l’uso sapiente e opportuno di velari permettono l’alternarsi fluido di scene intime e di scene di massa.

Non manca nel secondo atto il brigantino del proscritto Enzo Grimaldo con tanto di incendio nel finale, così come i balli e le carnevalate che rivelano il buon gusto del regista per il colpo d’occhio e per la disposizione scenica. La parete di fondo si alza e si abbassa creando ambienti diversi e rivelando pochi elementi iconici sempre di ottima fattura scenografica: un leone di San Marco alla prima apparizione di Alvise Badoero, oppure un sarcofago con rilievi romani nella scena dell’avvelenamento di Laura. Sfugge nella scena finale qualche orpello di troppo, che ingombra inutilmente il palco, senza dare nulla di più all’insieme scenografico.

I cantanti, tutti dotati di una certa verve ed esperienza scenica, sono gestiti accuratamente e con gusto classico, così come la disposizione delle masse che, se pur a tratti scontata, è sempre ordinata e piacevole. Una regia classica se vogliamo, ma coerente, attenta e ben organizzata per uno spettacolo nel complesso ben riuscito che si fa guardare con piacere.

Buona nell’insieme la compagnia di canto, salutata da lunghi applausi, che ha regalato al poco pubblico presente in sala una bella serata d’opera.

Nel ruolo del titolo c’era il giovane soprano cubano-americano Monica Conesa, che è dotata di una voce importante, grande energia e di una credibilità scenica notevole. Si impone certamente stagliando le ansie e i furori della gelosia che attanagliano la cantatrice Gioconda; tuttavia, si notano alcuni suoni non proprio ortodossi e la tendenza in alcuni passaggi a inflessioni nasali. Data la giovane età e il piglio della cantante, ci saranno sicuramente ampi margini di miglioramento per il prosieguo della carriera.

Al suo fianco l’Enzo Grimaldo di Samuele Simoncini, che convince con un timbro squillante e un’interpretazione sicura e accattivante, supportata da una presenza scenica attenta e composta. Anche per il tenore senese alcuni suoni potrebbero “correre” ed espandersi maggiormente, ma l’interprete è sicuro, spavaldo e di grande professionalità.

Laura era il mezzosoprano polacco Agnieszka Rehlis, in grande forma. Voce omogenea e timbrata, dagli accenti misurati e dal fraseggio composto, che sa anche svettare in acuti fulminei e luminosi. Forte di una lunga esperienza scenica, propone un personaggio angosciato e dolente. Una prova magistrale per lei.

Non da meno Angelo Veccia, un Barnaba di sottile perfidia, ben calibrato nella recitazione e dalla presenza sorniona e minacciosa. Vocalmente in grande spolvero, con un fraseggio scolpito sulla parola e sugli accenti. Una voce chiara la sua, ma ben timbrata e facile alle note alte. Una prova più che convincente per lui.

Simon Lim, Alvise Badoero, si conferma un basso di ottimo livello, sufficientemente spigliato in scena e dotato di voce corrusca, piegata negli accenti al personaggio di perfido oppressore. Anche Agostina Smimmero convince come Cieca. Il mezzosoprano napoletano regala una voce importante con risuonatori di petto notevoli e note gravi da manuale.

La Danza delle ore era eseguita da tre ballerine - Evgenija Koskina, Tatiana Svetlicna, Mina Radakovic – che danzavano una coreografia di Valerio Longo. Il coreografo romano riesce a confezionare un ballo piacevole, con movenze a tratti classiche a tratti contemporanee. La performance coreutica riceve infatti molti applausi da parte del pubblico.

Francesco Omassini ben dirige l’Orchestra dell’Arena di Verona, calibrando con attenzione il rapporto fra buca e palcoscenico, anche se la sua lettura risulta a tratti poco teatrale e poco personale.

Grande successo a fine spettacolo per tutti gli interpreti.

Raffaello Malesci (26 ottobre 2022)