Recensioni - Opera

Ronconi (si) diverte con Lolita

“Garbo laughs!” (la Garbo ride!) fu lo slogan con il quale venne promosso il lancio di “Ninotchka” la commedia di Lubitsch in cui ...

“Garbo laughs!” (la Garbo ride!) fu lo slogan con il quale venne promosso il lancio di “Ninotchka” la commedia di Lubitsch in cui la grande attrice svedese, nota per la sua seriosità ed imperturabilità, ad un certo punto scoppiava inaspettamente e sorprendentemente in una fragorosa risata (cronache maligne dell’epoca dicono doppiata). Posso capire perciò quale fosse la sensazione di divertita sorpresa provata dagli spettatori dell’epoca per il succitato evento poiché ritengo di aver vissuto una sensazione analoga mentre al Teatro “Strehler” assistevo alla Lolita di Nabokov per la regia di Luca Ronconi.
Finalmente, dopo un periodo dedicato all’impegno ed alla gravità nel teatro, non privi peraltro di una certa “scarsa digeribilità” nella fruizione, Ronconi torna alla leggerezza (prendendo il termine con le molle si intende), sia scegliendo un testo che è intriso di sottile ironia, sia portando all’estremo la sua concezione “macchinistica” della regia, fino quasi a diventare paradossalmente (e qui non me ne voglia nessuno) la caricatura divertita di questo modo di fare teatro.

Prima di venire accusato di iconoclastia vorrei precisare e ridimensionare la portata di questa mia affermazione: chi conosce il percorso artistico dell’attuale direttore artistico del Piccolo sa benissimo quale portata abbiano le “macchine teatrali” all’interno della sua poetica. Ebbene, in questo allestimento, costato peraltro oltre un miliardo, il continuo viavai di elementi scenici, di strutture che si materializzano e poi scompaiono, assume molto spesso tratti quasi paradossali, tanto viene enfatizzato e tanto viene portato all’eccesso, al punto che a volte la scelta può apparire come gratuita, cosa che peraltro non è mai, ed inevitabilmente suscitare il sorriso; basti pensare all’ingresso dell’enorme scalone sul quale ad inizio spettacolo si compie l’omicidio di Quilty. E questo non è che uno degli innumerevoli esempi che si potrebbero citare: dalla progressiva comparsa e scomparsa di elementi scenici che attraversano speditamente il palco, alla presenza di arredi e scenografie quantomeno originali nella dimensione o nel gusto, quali l’enorme cornetta del telefono su cui è appollaiato Quilty mentre telefona a Humbert, oppure il letto, tanto barocco ed esagerato quanto straordinariamente sensuale, nella scena del motel. A queste soluzioni si affiancano, nell’efficacissima scenografia concepita da Margherita Palli, due enormi pannelli sui quali vengono quasi costantemente proiettate immagini, in movimento che ricordano troppo i vecchi disegni animati che Terry Gilliam realizzava per i Monty Python per non guardarli con spirito divertito (e con questo paragone passo da iconoclasta ad eretico, lo so, ma la somiglianza nel tratto e nella realizzazione è davvero troppa per apparire casuale, quantomeno ad un occhio perfido quale il mio).

Non voglio a questo punto che si pensi allo spettacolo come ad una carnevalata, assolutamente non è così, si ride, è vero, ma è sempre un sorriso “di testa”, lo svolgimento dello spettacolo avviene sotto una mano sicura, tutto è perfettamente calibrato, nulla viene lasciato all’improvvisazione o alla sguaiataggine e quello che colpisce è, soprattutto nella prima parte, la ricchezza dell’inventiva, e la continua sorpresa derivante dalle innumerevoli soluzioni sceniche che danno la sensazione di trovarsi all’interno di una scatola magica.
Nella seconda parte questo tono si affievolisce, entrando nel vivo del rapporto Humbert–Lolita il clima spumeggiante dell’inizio lascia posto ad una maggiore seriosità, nella quale trova più compiuto sviluppo l’interpretazione metalinguistica che Ronconi dà del testo: la seduzione che Lolita opera nei confronti di Humbert non è altro che quella della “lingua nuova”, ovvero dell’Americano, sull’idioma del Vecchio Continente. Francamente la soluzione per la quale si è optato, cioè di far parlare la giovane Lolita in americano, doppiata simultaneamente, mentre tutti gli altri attori recitano in italiano non mi ha convinto fino in fondo, mi sembra un cerebralismo, oltretutto non compiuto sino in fondo. Infatti se Humbert è l’unico europeo in mezzo a tutti americani perché a questo punto anche gli altri non parlano come la bambina? Magari non quando si rivolgono a lui, ma almeno quando dialogano tra di loro, avrebbe sicuramente dato una maggiore idea di disorientamento da parte del professore, che invece manca, e fa apparire il tutto come un intellettualismo un po’ sterile.

Dal punto di vista degli interpreti lo spettacolo è ottimamente sorretto da un cast di attori veramente eccezionale.
Franco Branciaroli, che finalmente per una volta abbandona la sua recitazione esteriore fatta tutta di saliscendi vocali, si dimostra per quel grande attore che è. Il suo Humbert è un personaggio per molti versi debole, quasi infantile, in balia di questa sua ossessione per le “ninfette”, straordinariamente giocato e modulato su una vastissima gamma di mezzitoni, a volte spezzati dal ritorno del suo caratteristico “birignao” ma nel complesso estremamente misurato e contenuto. Non va dimenticato inoltre che, pur restando ininterrottamente in scena per tutte e quattro le ore dello spettacolo, non molla mai per un istante la presa sul pubblico.
Altrettanto straordinaria la Charlotte di Laura Marinoni. Portata dalla regia ad una recitazione un po’ sopra le righe (caratteristica questa che accomuna tutti gli interpreti) crea una signora Haze estremamente vitale ed allo stesso tempo sensuale, appassionata, con una straordinaria energia che contribuisce a creare quell’atmosfera tonica, briosa che caratterizza tutta la prima parte dello spettacolo.
Altrettanto sopra le righe ed altrettanto efficace il Quilty di Massimo Popolizio. Sicuramente una figura con meno sfaccettature, data anche la relativa brevità della parte, dalla quale comunque emerge perfettamente il carattere untuoso e malsano di questo scrittore.
Appropriata la scelta di Elf Mangold quale Lolita, soprattutto dal punto di vista fisico. La scena di seduzione di Quilty in cui gli danza davanti è, a mio avviso, uno dei momenti più forti dello spettacolo.
Funzionali, ma non saprei che altro aggiungere, le interpretazioni di Galatea Ranzi, quale Lolita adulta e Giovanni Crippa nel ruolo di narratore; altrettanto dicasi per i comprimari tra cui vi erano anche alcuni allievi della scuola del Piccolo.
Una menzione speciale al gruppo dei macchinisti: veramente eccellenti, i veri artefici di questo allestimento, ed all’“esuberante dobermann”, protagonista di uno dei momenti più estrosi dello spettacolo.

Davide Cornacchione