
A due anni dal debutto continua a non convincere la regia di Warlikovski dell'opera verdiana. Più riuscita la parte musicale
Loro. I bambini. Ce ne sono ovunque. Premesse e promesse del mondo che sarà. Ma anche larve inesistenti di una mente allucinata, nelle maschere raggrinzite, già vecchie, inespressive, di adulti di cui replicano l’identità. Così tanti da affollare, insieme al sontuoso coro dello Staatsoper di Vienna, l’immenso palco del Großes Festspielhaus di Salisburgo : streghe in miniatura, figli di nobili a rischio di vita, cloni di Banco che escono in serie dal tunnel di plexiglas che per tutto il corso dell’opera custodisce l’inconscio, l’inconfessabile, il male nella sua essenza primigenia; e ancora, piccoli corpi senza vita adagiati in una macabra sequenza sul bordo della scena, agnelli sacrificali di un banchetto scellerato offerto ad un dio malvagio (come non rabbrividire, oggi, di fronte a quelle immagini?) o diligenti portatori della bara dell’assassinato re Duncan. Ma ancor prima, poppanti proiettati nel video in bianco e nero che, in una natura verdeggiante (una foresta di Birnam ingentilita a prato circondato da alberi secolari) succhiano placidamente il latte dal seno di una giovane madre che ne accarezza il profilo con lo sguardo, uno sguardo subito velato di tristi presagi. Bambini e ancora bambini. Dappertutto, tranne che nella pancia della Lady.
È sfacciatamente chiara la lettura che, a Salisburgo, Krzystof Warlikovski, coadiuvato da Christian Longchamp, e da Małgorzata Szczęśniak per scene e costumi, imprime alla ripresa del verdiano Macbeth, già presentato nel 2023 con un cast quasi identico e accolto, allora come oggi, con applausi frammisti a bordate di fischi di dissenso. Una Scozia, quella ricreata dal regista polacco Leone d’oro alla carriera della Biennale teatro di Venezia 2021, traslata in un presente senza luogo, nello spazio fasullo, asfittico, di un castello disadorno tramutato in un campo da tennis dove a parlare sono gli elementi di contorno: gli spalti, gli sfacciati neon delle tribune, con la loro luce glaciale, la galleria di vetro che gli sfidanti (visibili dai piedi al tronco, senza poterne indovinare l’espressione) devono attraversare prima di disputare l’incontro, gli schermi, a catturare, voyeuristicamente, il dentro ancor più del fuori, il retrobottega delle emozioni, la stanza degli orrori, e l’infinita panchina in cui, in apertura, i due protagonisti attendono, in una solitudine che li vede l’uno opposto all’altra, il proprio rispettivo verdetto. Macbeth incontrerà di lì a poco le streghe che innescheranno il fatale marchingegno. La Lady un ginecologo che la visiterà, prospettandole verosimilmente l’impossibilità di avere figli o forse aiutandola ad abortire.
È una partita all’ultimo sangue ad un disperato, estremo jeu de paume, questo Macbeth, contro un avversario invisibile, contro ombre sempre più sovrastanti. L’ultimo match prima che il vento della rivoluzione sconquassi l’ordine delle cose nel suo turbine di violenza. Troppo pericoloso per essere disputato da soli; solo in doppio c’è una possibilità di vincere, e di salvare quel castello di nulla che sembra via via spogliarsi di ogni cosa. Macbeth - un Vladislav Sulimsky che presta il suo poderoso strumento a delineare un ritratto sfaccettato, introspettivo, complessivamente rinunciatario del protagonista - non è nessuno senza la sua Lady, una Asmik Grigorian che, se mai ce ne fosse bisogno, mette qui il punto esclamativo ad una statura interpretativa strabiliante per guizzo attoriale, finissima smerigliatura tecnica, formidabile in ogni zona, ipnotica adesione fisica, ancor prima che emotiva. Quando lui vacilla, da eroe forzato, dolorosamente in prestito in quei panni visibilmente troppo stretti, c’è lei, luciferina, svergognata, a riprenderlo e a rimbrottarlo, come una mamma dal polso fermo con un bambino incapace di decidere. Il loro erotismo sta tutto nel reggersi reciprocamente il gioco. Il grembo freddo di lei trova compensazione nel bisogno ora di assecondare ora di correggere il destino.
Mentre sul campo della finzione il loro potere si afferma sempre più, tra ricevimenti, banchetti, impegni ufficiali, e con esso cresce la facoltà e la frequenza con cui a piacimento tolgono la vita, sul campo sterrato della verità la vita è a loro negata, con l’impedimento senza appello alla capacità di generarla. Lo sanno, anche se non osano ammetterlo a sé stessi né all’altro. Sono rami secchi di un albero destinato ad inaridirsi, incapace di progettare se non l’estinzione altrui, nel tentativo allucinato di riscrivere una storia cucita addosso alle proprie mancanze, a frasi smozzicate e arcane strappate da un sabba. La loro vita è lì, confinata nel limbo di un palazzetto desolato in attesa dell’incontro, lì dove si dovrebbe giocare e invece si uccide, sempre di più, incapaci di smettere. Creature destinate a spegnere il respiro altrui per esistere, a fingere per sopravvivere. In un eterno stare in guardia contro la foresta che si muoverà verso di loro, contro i germogli che dal latte succhiato si faranno virgulti e poi alti fusti capaci di oscurare la reggia.
Una corsa in discesa, a freni rotti, a dimenticare il sangue versato con altro sangue da versare. Sfrenata e suicida, verso la disfatta, eccitata dal vento della profezia; una corsa spettacolare e spudorata, come senza pudore è la Lady che si spoglia e si riveste davanti ai nostri occhi, abbandonandosi ad una sigaretta via l’altra e a robuste bevute fino ad apparire, sfatta, arresa, oscena, mentre gira, barcollante, con il trucco sbavato, gli abiti stazzonati, con un abat jour in mano brandito come un pugnale, prima di tentare di uccidersi tagliandosi le vene. La fine è sul campo. Agonistica, non fisica. Non la morte ma la sconfitta: lui, demente, in carrozzina, ridotto ad un patetico, isterico automa. Lei legata a lui con il filo stesso della lampada. Catturati, irrisi. Costretti a subire un pubblico processo, a dare della loro nuova condizione di vinti indecente spettacolo, come il triste copione di ogni rovesciamento di potere richiede.
Accanto ai due protagonisti, non meno luminose le prove di Banco, un Tareq Nazmi di raffinatissima caratura, e di Macduff, un Joshua Guerrero in gran spolvero, affiancati dal puntualissimo Malcolm di Davide Tuscano. E a condire, rifinire, esaltare l’abbacinante tela che Verdi ordisce sul tracciato shakespeariano, la lussureggiante buca in cui i Wiener, ancora una volta condotti in questa traversata (come nel 2023, allora in corsa, a sostituire Wesler Mὂst) dal braccio saldo e visionario di Philippe Jordan, accendono la partitura di un pathos così teso e incalzante da farla sembrare pagina nuova, rivelazione di prima mano. Tempi sostenuti a rendere il montare della tensione, il proverbiale legato d’antica scuola di marchio viennese, l’insieme saldato al fuoco di un comune sentire, costruito strato per strato nel tempo, l’oro fuso di strumentalità superlative a plasmare un suono che è metallo prezioso, fuoco che scalda, ma anche livida tinta di morte. Ottoni morbidissimi quanto, all’occorrenza, impietosi, archi folleggianti, fiati e percussioni infallibili. E, con l’orchestra, il coro. Una massa che circonda, come in una tragedia greca, la scena, la determina, la avvolge di una compattezza timbrica che è una stilettata al cuore. Peccato la dizione, per tutti – solisti compresi – complessivamente piuttosto faticosa e opaca. Con una maggiore chiarezza del testo, la proverbiale parola scenica verdiana avrebbe avuto la sua serata di grazia. In una ragnatela di suggestioni e di provocazioni di innegabile spessore, avrebbero allo stesso modo necessitato di qualche passaggio più esplicito anche i rimandi alle figure di Edipo di Sofocle e di Maria di Nazareth, lampeggianti attraverso i frammenti cinematografici tratti dai pasoliniani Edipo re e Vangelo secondo Matteo. Ma anche così, nella sua ridondante incompiutezza, questa regia dai tanti temi reticolari, dai mille spunti sapeva, se non pienamente convincere, di certo avvincere senza riserve. Ed è già molto.