Recensioni - Opera

Salome tra psicanalisi ed erotismo

Allestimento in chiave moderna del capolavoro di Richard Strauss al Teatro Filarmonico

Capolavoro musicale dello jugendstil, Salome di Richard Strauss ha concluso la stagione invernale del Teatro Filarmonico. Nonostante la vicenda sia ambientata nella Gerusalemme del primo secolo dopo Cristo, l’opera racchiude in sé le caratteristiche del decadentismo di fine ‘800 di cui è l’emblema. Strauss, nel musicare il dramma di Oscar Wilde, compone una musica che esalta la sessualità morbosa che lo pervade, in una partitura estremamente virtuosistica che all’epoca venne considerata fin troppo audace e suscitò più di una perplessità. Assurto ormai all’olimpo dei classici, questo titolo costituisce invece il primo tassello di quella rivoluzione in campo operistico che proseguì con le sconvolgenti e fino allora inaudite sonorità della successiva Elektra.

 

Questo allestimento, l’unico nuovo dell’appena conclusa stagione invernale della Fondazione Arena, era firmato per la regia da Marina Bianchi, che interpreta la vicenda in chiave erotico-psicanalitica, ambientandola in una dimensione atemporale. Se infatti le scene di Michele Olcese rimandano ad un palazzo di stile classico, ornato da colonne, gli arredi rimandano alla Vienna della Secessione mentre i costumi di Giada Masi che includono sia gli anfibi e le magliette a rete degli armigeri che la tunica di Erode, non sono filologicamente riconducibili ad un’epoca precisa. La regista, che inserisce anche una danzatrice a creare una sorta di doppio di Salome, insiste molto sulla componente erotica della vicenda, sottolineando il desiderio morboso di Erode nei confronti della figlia adottiva e abbozzando relazioni omosessuali sia tra il Paggio e Narraboth che tra le due androgine ragazze che fungono da guardia del corpo di Salome. In netto contrasto incombe la figura di Jochanaan il cui volto viene proiettato sul fondale ogni volta che se ne sente la voce dall’interno della prigione. Soluzione che non aggiunge molto, come peraltro abbastanza didascalico è apparso in generale l’uso delle videoproiezioni in questo allestimento.

 

Il ruolo del titolo era interpretato da una carismatica Nadja Michael, che, seppur non sempre a suo agio nel registro acuto, si è distinta per un fraseggio espressivo ed una fisicità notevole che le ha permesso di costruire un personaggio crudelmente sensuale che ha avuto il suo apice nella danza dei sette veli.
Ottima l’Erodiade di Anna Maria Chiuri, che, in una forma vocale smagliante, ha delineato una figura altera, regale ed elegantissima nel suo costume nero, cui si contrapponeva il convincente Erode di Kor-Jan Dusseljee. Vocalmente autorevole anche se non sempre scenicamente convincente Lo Jochanaan di Fredrik Zetterström, mentre ben risolto era il Narraboth di Enrico Cesari. Nicola Pamio, Pietro Picone, Giovanni Maria Palmia, Paolo Antognetti e Oliver Pürckhauer si sono ben disimpegnati nel ruolo dei cinque Giudei, come anche Belén Elvira in quello del paggio.

Sul podio Michael Balke ha optato per dinamiche estremamente accentuate, puntando su tinte corrusche ed un taglio marcatamente espressionista, ottenendo risultati interessanti, nonostante il titolo, rappresentato al Filarmonico l’ultima volta nel 2000, non sia tra quelli più frequentati dall’Orchestra della Fondazione Arena.
Il pubblico ha risposto calorosamente tributando applausi convinti a tutto il cast.

Davide Cornacchione 20/05/2018