
Sontuosa produzione per l’opera di Francesco Filidei
L’opera contemporanea fa capolino al Teatro alla Scala di Milano. Non è una novità, certo; ne viene proposta in media una a stagione, ma questa volta il compositore è italiano: Francesco Filidei, da Pisa, classe 1973. L’ispirazione pure: il grande romanzo di Umberto Eco Il Nome della Rosa, successo planetario della fine del novecento.
Il pubblico deve aver colto la novità, forse l’eccezionalità della proposta, tanto che tutte le repliche sono andate esaurite e non è proprio una cosa comune per le proposte di opera contemporanea.
Filidei ha al suo attivo due opere, diverse altre composizioni di varia natura e un curriculum di tutto rispetto. Insieme al librettista Stefano Busellato, crea una riduzione speculare del romanzo, organizzata in due atti, ventiquattro scene, ognuna dedicata ad un fatto, ad un personaggio o ad un avvenimento.
Il romanzo di Eco è una congerie di citazioni e di generi: vi si trova la trama del giallo; l’ironia della citazione, basti pensare a Guglielmo da Baskerville che richiama Conan Doyle; la grande cultura medievale; una buona dose di leggenda: il libro sulla Commedia pare non sia mai stato scritto da Aristotele; ampie digressioni filosofiche; rimandi al latino e così di seguito.
Filidei mantiene in questo senso la complessità del romanzo di partenza. Infarcisce a sua volta la partitura di citazioni in più lingue; di una complessa e affascinate polifonia; di una ieraticità solenne; di una malcelata ironia; ma anche di semplici recitativi, accenni di arie, scene d’insieme che a loro volta citano musiche e stilemi dal barocco alla contemporaneità. È sicuramente un’opera a più strati quella di Filidei, come il libro di Eco del resto, dove ci si può perdere nel seguire la trama o divertirsi nel cogliere qua e là le citazioni sia musicali che testuali. C’è Puccini, Mahler, la polifonia medievale, ma anche Mascagni, Leoncavallo; oltre a tutti gli stilemi di ricerca che ci si aspetterebbe dalla musica contemporanea, che (detto fra parentesi anche se Eco non amava le parentesi) sono irrinunciabili per il compositore contemporaneo che si voglia definire tale. Perciò via di corde che roteano, fogli di spartito mossi dagli orchestrali, battiti di mani a simulare il fuoco, ogni tipo di percussioni, fogli di plexiglass che si piegano e chi più ne ha più ne metta.
L’esito è labirintico, affascinante e straniante nell’insieme; indubbiamente positivo nella sua mescolanza di stili, ma ogni giudizio risulterebbe parziale, perché è la complessità la cifra della partita giocata da Filidei.
Di buono abbiamo sicuramente le sonorità polifoniche dei cori, la bellissima scena del portale dell’abbazia nel primo atto, le intense linee melodiche di alcuni personaggi: Adso, Remigio da Varagine e Jorge de Burgos fra gli altri; l’accattivante e complesso incendio nel finale dell’opera. Di meno buono abbiamo l’eccesso di Sprachgesang, che sfocia troppo spesso nel puro parlato; il venir meno in alcuni punti della musica, che si trasforma in suono e rumore – ma del resto Filidei è allievo di Sciarrino e la cosa era prevedibile, così come era prevedibile che Eco non amasse gli “a parte” col trattino come questo -; alcune scene non risolte drammaturgicamente e deboli come la “fraterna discussione” del secondo atto. PS: Eco sconsigliava anche le virgolette e i post scriptum!
Il Teatro alla Scala non ha lesinato mezzi per questa produzione, che oltre a due cori, prevede circa sedici parti soliste. La regia è stata affidata a Damiano Michieletto, con la consueta collaborazione di Paolo Fantin per le scene e di Carla Teti per i costumi.
Michieletto sceglie di non illustrare il medioevo, ma di costruire una scatola nera architettonica, dove in alto troviamo appollaiato il coro in ranghi compatti e regolari; coro che, detto per inciso, interpreta anche personaggio di Adso anziano, con esito forse non completamente risolto. In questa scatola sostanzialmente spoglia si avvicendano le scene, illustrate via via da alcuni elementi come il muro con il fregio del portale, da cui escono mimi che rappresentano gli incubi di Adso; una lettera di una miniatura medioevale con tanto di fauno suonatore al suo interno; fino ad idee meno pregnanti, come il leggio per la biblioteca o la tavola imbandita per la debole scena del banchetto, con tanto di elenco delle pietanze che richiama inevitabilmente certe farse goldoniane o le commedie rossiniane; oppure ancora i mimi con teste da bestiario che ricordano la sfilata storica del palio di Siena.
Il tutto è ordinato e ben organizzato, ma l’andirivieni delle scene su binari ricordano un Ronconi d’antan, con i suoi “carrettini” come dicevano i loggionisti anni fa, e non sempre risolvono al meglio lo svolgimento scenico. Solo nel finale si comprende che i teli di voile bianco che incombono dall’alto sono in realtà il labirinto della biblioteca dell’Abbazia. Labirinto che crolla dall’alto con lo staccarsi dei teli nel finale. Nel mentre sono apparsi i sette cadaveri dei monaci su altrettanti tavoli anatomici a rappresentare le sette trombe dell’apocalisse. Brucia la croce al neon incombente dall’alto e lo spettacolo si chiude ieratico come era iniziato. Il fuoco della croce ci ricorda che forse c’è dappertutto un po’ troppa carne al fuoco e che una grigliata meno ricca e più selezionata sarebbe forse risultata più gustosa.
Di alto livello tutto il numeroso cast. Lucas Meachem è stato un Guglielmo da Baskerville convincente sia per il fisico del ruolo che per la linea vocale. Adso da Melk era Kate Lindsey, che ha dimostrato una buona immedesimazione con il personaggio e un canto attento ed espressivo.
Nel numeroso cast ci è piaciuto per chiarezza, stile ed espressività il Remigio da Varagine di Giorgio Berrugi. Gianluca Buratto, Jorge da Burgos, riempiva la cavea con una scura voce da basso profondo e una linea di canto scolpita sulla parola. Si segnalano anche il Bernardo Gui di Daniela Barcellona e il Salvatore ben caratterizzato di Roberto Frontali.
Ottima professionalità anche per tutti gli altri: Katrina Galka, Fabrizio Beggi, Owen Willetts, Paolo Antognetti, Carlo Vistoli, Leonardo Cortellazzi, Adrien Mathonat, Cecilia Bernini, Flavio D’Ambra, Ramtin Ghazavi, Alessandro Senes.
Ingo Metzmacher, uno specialista di questo tipo di repertorio, tiene magistralmente sotto controllo l’indubbia complessità sonora e il non facile rapporto fra buca e palcoscenico.
Qualche vuoto fra le poltrone degli abbonati, ma applausi più che convinti nel finale.
Raffaello Malesci (Sabato 3 Maggio 2025)