Recensioni - Opera

Secondo appuntamento con la grande danza americana al Teatro Romano

La Paul Taylor Dance Company chiude la rassegna di danza dell'Estate Teatrale Veronese

Tra il frusciare di fronde degli olivi, lo svolazzare di ali di pipistrello sulle cime dei cipressi e lo sciabordio ovattato delle acque dell'Adige, il Teatro Romano di Verona apre puntualissimo, sabato 18 agosto, lo spettacolo della Paul Taylor Dance Company. Fortunatamente il cielo dietro il grande palcoscenico nero è già bluastro e presto verrà il buio; la serata è calda ma non afosa e quindi abbiamo l'atmosfera ideale per godere dello spettacolo di una delle più blasonate e storiche compagnie di Modern Dance al mondo.

 

Paul Taylor, classe 1930, fonda la sua compagnia a New York, nel 1954, dopo aver danzato nelle compagini dei più grandi innovatori della danza moderna di quel periodo: Merce Cunningham, Martha Graham, George Balanchine. Con la sua nuova visione della danza ed il suo metodo, impone la sua compagnia all'attenzione del pubblico e ben presto fioccano i premi: il Guggenheim Fellowship for Creative Arts nel 1961, il MacArthur Fellowship nel 1985 e i Kennedy Center Honors e il Primetime Emmy Award nel 1992. Il successo del suo lavoro e l'alto livello che ottiene dai suoi danzatori gli permettono di sdoppiare la compagnia, creando, nel 1993, la Paul Taylor Dance Company 2. Compagini entrambe di altissima qualità coreutica, che diventeranno fucina di talenti della danza moderna e contemporanea del calibro di: Twyla Tharp, David Parsons, Laura Dean, Dan Wagoner, Elizabeth Keen, Christopher Gillis, Senta Driver, Amy Marshall, Lila York, Bettie de Jong, Daniel Ezralow, ecc., alcuni dei quali si manterranno fedeli al maestro, mentre altri creeranno nuove compagnie, che segneranno a loro volta il futuro della coreografia contemporanea. Con le sue compagnie, Paul taylor raccoglierà altri premi, come il Bessie Lifetime Achievement Award nel 2012, e avrà modo di esibire i suoi lavori in 64 paesi e 540 città del mondo. Ormai riconosciuta a livello mondiale, la fama del maestro verrà premiata, dal 2005, con una sovvenzione, da parte del Comune di New York e di fondazioni private, e un contributo annuale di 20 milioni di dollari, per sostenere la compagnia e la sua scuola.  

 

La formazione delle nuove leve della danza, avviene infatti attraverso la scuola, dove il suo metodo viene praticato fin dai primi anni d'età. E' quindi una visione della danza a tutto campo quella di Taylor, che si occupa dei giovani sia sul piano pedagogico che artistico, con lezioni che, per gli studenti più giovani, si concentrano sul movimento creativo, sull'atletismo e sul linguaggio artistico della danza classica e moderna, mentre per gli studenti più grandi il lavoro si basa sull'acquisizione dello stile coreografico del maestro maturandolo direttamente nella compagnia. Con una lettura antropologica del mondo, e attraverso le sue componenti simboliche, Paul Taylor ha creato una danza potente, rituale, leggera, dinamica e, nello stesso tempo, sinuosa e lirica, per cui ben presto è diventato un innovatore al pari dei suoi maestri.

Scevro da drammaticità e pathos estremi, ma pervaso da una sublime trasparenza e leggerezza, lo stile di Taylor si distingue dai linguaggi di M. Graham e di M. Cunningham, di cui per altro mantiene molte posizioni di base, soprattutto nelle prese e nel dialogo corporeo di coppia e di gruppo. Un linguaggio maturo, rispettoso degli antichi maestri della danza classica (cui rimane fedele nelle posizioni di braccia, mani e piedi) e che passerà come prezioso viatico a David Parsons, ma che prelude alle future elaborazioni di gruppo, con i movimenti corali pieni di salti, slanci e dinamiche nello spazio, delle nuove forme performative scenografiche, che proporranno coreografi come Daniel Ezralow e Moses Pendleton, quest'ultimo nei Momix.

A Verona la Paul Taylor Dance Company ha presentato, per la prima volta qui, tre coreografie della durata di 20-25 minuti l'una.  La prima è «Cloven Kingdom», un lavoro del 1976, che si mantiene sempre attuale e mostra la forza innovativa del linguaggio di Taylor, attraverso la spaccatura (la "divisione" presente nel titolo) di un regno che vive due dimensioni esistenziali. L'una formale, perbenista, di facciata, nella quale vengono mostrati i riti quotidiani di una corte, dove una pentola,  maschere di specchietti e lastre riflettenti fan da copricapo e da corone nei costumi di Scott Barrie, ed è costituita prevalentemente da movimenti e suoni razionali, "normali", rinvigoriti dalle splendide musiche barocche dei concerti di Arcangelo Corelli;  e l'altra primitiva, sensuale ed istintiva, rilevata dalle musiche percussive, rituali e cadenzate di Henry Cowell e Malloy Miller, che si innesta baldanzosa e ambigua, nel percorso lineare della vita formale del reame, con sottili dardi, frammezzandola e decomponendola. Il tutto danzato con passi a due, alternati ad azioni corali nelle quali i maschi, toltasi la maschera, ma vestiti sempre coi loro frac, diventano pantomime di animali scimmieschi ammaestrati, quasi robotizzati, nel sottofondo di una musica orientaleggiante. Le fanciulle, nella dimensione razionale, svolazzano in diagonale sul palco a braccia aperte, correndo veloci con gli abiti vaporosi e fruscianti che galleggiano in aria, braccia e gambe lanciate in avanti, a mostrare come la bellezza ordinata e cerebrale, si opponga a quella istintiva della primitività. Una performance dove si palesa, come cita il programma di sala, " la natura conflittuale dell'individuo".

La seconda pièce è una coreografia del 1997: «Piazzolla Caldera», un lavoro che si propone di presentare l'atmosfera silenziosa, piena di sguardi e di complicità, di una Milonga, la balera dove si danza il Tango, che non sappiamo (giocando con il titolo) se collocata nella città argentina di Caldera, o all'interno di un ambiente assai "caliente", col fondale rosso pompeiano e le lampade pendenti a varia altezza. La base che scorre è un insieme di bellissimi brani di Piazzolla e di Jerzy Peterburshkky (un sorprendente compositore polacco divenuto famoso per i suoi tanghi negli anni '50). La matrice è quindi il gioco di coppia, che si alterna, anche in coppie gay, tra ammiccamenti e rifiuti, seduzioni e sfide, che i 12 danzatori presentano in modalità più tipiche della danza che del tango, e, secondo il nostro modo di vedere, proprio per questo, assai meno efficaci. Una coreografia, dunque, che, nonostante l'articolazione, i cambi di movimento e la bravura di danzatori e danzatrici, non sottolinea sufficientemente il sottile, ma profondo gioco seduttivo tipico del tango. E belli sono molti passaggi, come i passi testa contro testa, il passo a due con lui in piedi e lei che gli si striscia contro e si arrotola intorno alle sue gambe, le azioni corali dove più che passione emerge la tensione, come quando una donna sola è circondata da 7 baldi e muscolosi maschi. Ma in breve sintesi, poco fanno le rose rosse tra i capelli femminili, le giarrettiere e gli abiti corti, leggeri e trasparenti, delle ragazze, più adatti agli ambienti parigini del CanCan, che alle gonne lunghe rosse o nere (quelle sì sensuali ) dal lungo vertiginoso spacco, che attirano ancor oggi decine di Tangueros. Un linguaggio senz'altro coerente a quello tipico Tayloriano, impreziosito di eleganza, ma carente di quella passionalità, di quel contatto tra i corpi e del respiro corto che han fatto del "toccare" il succo e il privilegio di danzare il Tango.

La serata si conclude con «Promethean Fire» del 2002, una coreografia che vede la compagnia vestita in calzamaglia nera decorata da strisce diagonali chiare e opposte, tali da far diventare ogni ballerino elemento terracqueo nello spazio della scena, quasi fosse albero o foglia, onda o deposito d'argilla tra lingue di lava nera. O forse questi abiti, disegnati da Santo Loquasto, vorrebbero mostrare le ferite di Prometeo o le lingue di un fuoco iridescente. Comunque sia, un richiamo a mitici bagliori, quello che ci fornisce il titolo, ed il rimando ad un percorso (spirituale?) che risale, nel mito greco, ai primordi della nostra vita, quando il Titano, amico dell'umanità, ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini, per poi subire " la punizione di Zeus che lo incatena a una rupe ai confini del mondo e lo fa sprofondare nel Tartaro, al centro della Terra"!  Non a caso per un mito così profondo, una musica importante, come la Toccata e Fuga in Re minore e due preludi di quel genio di Bach, nell'orchestrazione di Leopold Stokowski. Una performance ricca di spunti ed elementi, come il passo a due con lei avvinghiata alle reni di lui, come a sublimarsi in un unico essere, o il mucchio di corpi che cresce mano a mano e da cui emerge una forma di donna, o gli elastici movimenti dei cori nelle ripetute processioni di corsa intorno e lungo il palco, a passi corti o lunghi e con ampi movimenti delle braccia, o il gioco di coppia tra un Prometeo biondo ed una morbida umana - radice femminile, o le teorie di maschi che portano appese donne inginocchiate. Un lavoro molto corale, assai ben amalgamato, docile, dove rimane la sinuosità di giravolte e corse, di morbide carezze, di corpi esposti eppure mai veramente protagonisti, attenti a non sbagliare, anche se sciolti, e sempre eterei e delicati… Teneri, anche qui, in una danza molto bella, ma che non raggiunge la potenza simbolica ed evocativa della Musica, quasi fosse questa la punizione dello sventurato, dove senza ardere né di passione, né di tellurica energia, la danza è antagonista e la musica vero protagonista. Un'ambiguità, quella della scena, sempre in conflitto tra abbandono e controllo. E Taylor è per quest'ultimo, comunque attento agli archetipi del mito, in una lotta simbolica tra vita e morte ch'egli fa esaltare nel finale, non nell'annientamento, ma nell'esaltazione dell'umano, dove i corpi divisi si ritrovano, ed uniti, creano insieme un ardente, palpitante fuoco di carne. Viva la vita!

Gian Luigi Vezoli 18 agosto 2018