Recensioni - Opera

Sempre attuale l’Anna Bolena di Vick

Al Teatro Filarmonico riscuote un caloroso successo il titolo donizettiano nello sfarzoso allestimento del 2007

Torna al Filarmonico a distanza di dieci anni l’Anna Bolena di Gaetano Donizetti nell’elegante produzione firmata da Graham Vick nella regia e da Paul Brown nelle scene ed i costumi. Si tratta di un allestimento dai tratti fortemente simbolici, dominato da suggestivi tableaux vivants, all’interno dei quali i movimenti dei protagonisti sono estremamente misurati e improntati più all’introspezione che all’azione.

 

Il repertorio belcantistico, è risaputo, costringe ad una certa staticità, dato che l’aspetto musicale domina incontrastato su quello drammatico, soprattutto quando, come in questo caso, si sceglie di rappresentare la partitura in versione integrale. Ciò non toglie che, a distanza di due lustri, lo spettacolo sia ancora estremamente godibile ed appaghi sempre l’occhio. L’idea registica si basa su due pedane rotanti che sono alla base della composizione delle singole scene, a loro volta caratterizzate da alcuni elementi di grande impatto: due cavalli rampanti sui quali si incontrano i sovrani, la dea Fortuna bendata, una spada che divide a metà il palcoscenico a rappresentare l’imminente condanna a morte di Anna e degli altri accusati. Molto bella la sequenza finale, introdotta dal coro sotto una pioggia di coriandoli rossi, in cui Anna sulla pedana centrale assiste alle nozze di Enrico e Giovanna attraverso un vetro rotto.

 

All’interno di questa sontuosa cornice si esibisce un cast che, pur non riuscendo a rinnovare i fasti della prima di dieci anni fa (Devia, Pertusi, Polverelli, Meli), ottiene un risultato ragguardevole.
Irina Lungu possiede un timbro omogeneo, morbido nel centro e sicuro nell’acuto che le consente delineare una Bolena dolente e malinconica, quale è poi il ritratto che ne fanno Romani e Donizetti. Se nella prima parte le mancano l’autorità ed il carisma necessari per affermarsi come regina, nel secondo atto e soprattutto nella scena finale, trova i giusti accenti per coglierne il lato più intimo e profondo.
Nonostante un’indisposizione annunciata Annalisa Stroppa tratteggia una Giovanna Seymour intensa e volitiva. La voce è limpida e squillante e l’interpretazione è di gran classe. Mirco Palazzi è un Enrico VIII dai centri ben definiti, vario nel fraseggio ma a volte opaco negli acuti. Al contrario il Lord Percy di Antonino Siragusa si caratterizza per acuti squillanti e perfettamente timbrati ma non sempre supportati da un altrettanto incisivo registro medio-grave. Chiamata in sostituzione dell’indisposta Martina Belli, Manuela Custer si disimpegna egregiamente nel ruolo di Smeton, mentre efficaci sono il Rochefort di Romano Dal Zovo e il Sir Harvey di Nicola Pamio.
Jordi Bernàcer ha diretto in modo appropriato ma senza dare mai l’impressione di toccare il cuore della partitura. Nonostante la lettura tendesse ad esaltare più l’aspetto romantico, rispetto alla tradizione rossiniana, mancavano quei colori e quegli accenti necessari per darle una vera e propria caratterizzazione. Buona la prova del coro diretto da Vito Lombardi. Al termine applausi calorosissimi da parte del pubblico che esauriva il Teatro Filarmonico.

 

Davide Cornacchione 29 aprile 2018