Recensioni - Opera

Shylock tra Kusturica e Lynch

Moni Ovadia e Roberto Andò trasformano il Mercante di Venezia da commedia nera ad incubo a tinte forti

Dopo due allestimenti di stampo tutto sommato tradizionale, l’Estate teatrale Veronese chiude il 61° Festival Shakespeariano con una riscrittura radicale del Mercante di Venezia, proposta dalla coppia Moni Ovadia-Roberto Andò.
Già questo costituisce  motivo di plauso:  trovo infatti estremamente stimolante (e per certi aspetti quasi doveroso) che un festival shakespeariano trovi il coraggio anche per uscire dal “canone” classico e rivedere i capolavori del Bardo di Stratford alla luce del nostro tempo. Ed è infatti questo l’approccio con il quale due autori affrontano l’opera: portando in scena uno Shylock vecchio di 400 anni, forse “lo Shylock” originale, che Moni Ovadia (co-regista dello spettacolo ed allo stesso tempo  interprete del regista nella finzione scenica) vuole riabilitare dalla tradizionale lettura antisemita di epoca elisabettiana.
 

Il plot drammaturgico in breve prevede che un impresario (Ruggero Cara) chieda ad un regista ritiratosi dalle scene (Ovadia) di allestire il Mercante di Venezia. Ovadia porta in scena un vecchio Shylock (Shel  Shapiro) al quale vorrebbe alla fine fosse resa la libbra di carne che da quattro secoli gli viene negata, mentre l’impresario, dal canto suo, vorrebbe estirpare al regista stesso una libbra di carne, ovvero un “cuore d’artista” da porre nella sua collezione.
Da questa trama, in apparenza lineare, si dipana una catena di digressioni che toccano gli argomenti più vari: dall’antisemitismo, al teatro, alla sessualità, al ribaltamento dei rapporti vittima/carnefice e, non ultimo, alla “mercatura”. Chi è infatti alla fine il vero mercante: Shylock o l’impresario, che contrappone all’idealismo del regista una vera e propria mercificazione dell’arte, costringendo la gente ad operare in una realtà in cui attori e attrici si concedono ad una sessualità annoiata ma necessaria, perché comunque l’ambiente lo impone?
In un’atmosfera onirica, a metà strada tra l’anarchia di Kusturica e gli incubi di David Lynch, un’umanità assemblata in modo apparentemente casuale, costituita da viscidi impresari, attori narcolettici, vescovi-bodyguard ed infermiere stralunate, diviene protagonista di una serie di situazioni metateatrali spesso di forte impatto; come quella in cui una videoproiezione di Hitler che ripete il monologo dell’ebreo Shylock funge da sfondo ad una parata di attori e musicisti che, sulle note della canzone yddish “Ani maamin”, ricorda certe tragiche messinscene che si allestivano nei campi di concentramento.
Bisogna tuttavia ammettere che non tutti i passaggi sono così coinvolgenti, che il ritmo necessiterebbe a volte una maggiore calibratura e che non tutti i raccordi tra una situazione e l’altra sono sempre così fluidi. Nonostante ciò lo spettacolo riesce comunque a reggere bene l’ora e tre quarti della sua durata, grazie anche ad una notevole prova degli attori. Ruggero Cara è efficacissimo nel suo giocare in modo viscido e guascone sia  con il ruolo dell’impresario che con quello di Antonio, contrapponendosi al regista-Shylock di un Moni Ovadia che convince come narratore, mentre denota un certo distacco nei momenti in cui è richiesta una maggiore immedesimazione con il personaggio. Lee Colbert, nel ruolo dell’infermiera, oltre che straordinaria cantante, si conferma anche attrice carismatica mentre Shel Shapiro è uno Shylock che gioca molto sulla sua presenza scenica. Molto brava anche la giovane Federica Vincenti nel ruolo dell’attrice disillusa chiamata ad interpretare il ruolo di Porzia; funzionali i prelati Roman Siwulak e Maxim Shamkov. Sempre trascinante nel suo commentare musicalmente le varie situazioni la Moni Ovadia Stage Orchestra.
Al termine applausi convinti da parte di un teatro Romano quasi esaurito.

Davide Cornacchione 22/06/2009