Spettacolo ormai simbolo dello Sferisterio, La traviata “dello specchio” è uno di quegli allestimenti entrati a far parte della storia del teatro, così ricchi di fascino e buon gusto da risultare ancora smaglianti a quasi trent’anni dalla loro ideazione.
La scenografia fu pensata da Josef Svoboda nel 1992 proprio per il palcoscenico dell’arena maceratese ed è costituita da una serie di teli dipinti, poggiati a terra e sfilati via via da assistenti di scena, i quali riflettono la loro immagine su un grande specchio di forma irregolare, inclinato di circa 45 gradi, consentendo al pubblico una doppia visione della scena, frontale e dall’alto: un’idea semplice, ma geniale, che permette di superare l’idea tradizionale del fondale dipinto aprendo nuove prospettive di profondità e generando effetti di grande bellezza.
Si parte con un sontuoso sipario rosso, subito sostituito da dipinti raffiguranti cortigiane discinte, ben caratterizzanti l’intero primo atto; il profilo di una casa di campagna, un immenso prato di margherite e immagini in bianco e nero di donne in crinoline fanno a loro volta da sfondo al ritiro in campagna della coppia; uno splendido lampadario di cristallo domina, infine, il momento della festa a casa di Flora.
Tutto muta durante l’atto finale in cui il semplice assito nero del palcoscenico funge da simbolo della morte incombente. Di innegabile efficacia il momento della dipartita della protagonista in cui lo specchio si alza in verticale così da mostrare il meraviglioso colonnato semi illuminato dell’arena e i profili del pubblico presente in sala.
Pochi, ma di ottima fattura, anche gli arredi presenti in scena che, grazie all’effetto moltiplicatore dovuto alla riflessione, riescono perfettamente a colmare l’enorme spazio del palco dello Sferisterio: divani, sedie e pouf imbottiti di fattura classica per l’interno delle due case parigine, cui si aggiungono alcuni tavoli da gioco nel caso della dimora di Flora; un semplice tavolino in legno per il rifugio di campagna; un letto, candelabri rovesciati, una scrivania e un giaciglio di fortuna per la scena finale.
Belli, eleganti e dai colori accesi i costumi pensati da Giancarlo Colis, ancora freschi e per certi versi forse meglio calibrati che in passato, grazie ad alcune piccole revisioni, i movimenti scenici pensati dal regista Henning Brockhaus e quelli coreografici di Valentina Escobar.
Nino Machaidze è una Violetta sontuosa che sfoggia una voce rotonda, uniforme, solida in tutti i registri e soprattutto ricca di colori; l’emissione è perfettamente calibrata, con alcune mezze voci davvero intense e ricche di pathos, l’interpretazione del personaggio appare magistrale in tutte le sue sfaccettature, come si evince anche da un “Amami, Alfredo” eseguito con passione e slancio mirabili.
Al suo fianco Antony Ciaramitaro sfoggia uno strumento ampio, corposo e dal bel colore, adattissimo al ruolo. Il suo è un Alfredo appassionato, aitante quanto basta e convincente sotto tutti i punti di vista, a partire dalla cura puntuale del fraseggio; di grande impatto emotivo il duetto con la protagonista in “Parigi, o cara”, in cui la complicità e l’amalgama fra i due risultano palpabili.
A sostituire l’indisposto Roberto de Candia nel ruolo di Giorgio Germont un Claudio Sgura in splendida forma. Egli imprime al personaggio la giusta dignità, probità e soprattutto signorilità; solida e di volume importante la voce, gestita con autorevole morbidezza.
Molto buona la seducente Flora di Mariangela Marini, davvero debole al contrario l’Annina di Silvia Giannetti.
Di lusso i comprimari: Carmine Riccio (Gastone), Alberto Petricca (Il Barone Douphol), Stefano Marchisio (Il marchese D’Obigny), Gaetano Triscari (Il dottor Grenvil).
Buona la prova del Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”, ben preparato da Martino Faggiani.
Qualche perplessità lascia, invece, la direzione di Domenico Longo, vagamente generica nella scelta delle agogiche, a tratti depauperata di colori ed un po’ troppo lenta nello stacco dei tempi.