Recensioni - Opera

Teatro alla Scala: un Macbeth fra teatro e televisione

Davide Livermore presenta una messa in scena fortemente condizionata dalla volontà di stupire e dal mezzo televisivo. Splendida compagnia di canto. 

L’inaugurazione della Scala è, volenti o nolenti, un evento particolare, per la sua capacità di catalizzare tutte le attenzioni mediatiche su uno spettacolo operistico. Evento unico nel panorama nazionale: infatti dopo la prima della Scala cade il silenzio, si svestono i panni della mondanità e si ritorna a vivere l’opera lirica nella sua dimensione propria, quella teatrale.

È inevitabile che tale pressione mediatica influenzi gli autori dello spettacolo, in particolare c’è il tentativo di stupire, utilizzando i copiosi mezzi economici messi a disposizione per l’opera inaugurale. Davide Livermore non è nuovo alle prime della Scala, ma quest’anno ha voluto strafare presentando un allestimento fra il sontuoso e il macchinoso. Coadiuvato da un rodato gruppo di collaboratori, il team Giò Forma per le scene, Gianluca Falaschi per i costumi e lo studio D-Wok per i video, Davide Livermore dichiara il suo condivisibile intento programmatico: “Non andiamo a teatro per vedere una ricostruzione storica, ma per essere toccati nel vivo del nostro presente”.

La messa in scena

Ecco allora una società moderna e distopica, con allucinanti sfondi metropolitani, un agglomerato urbano irto di grattacieli, senza uno sprazzo di verde, dove si muovono uomini e donne omologati e succubi. Una città che, nella catarsi finale del protagonista, esplode nell’incendio della guerra civile, frantumandosi letteralmente in mille pezzi con effetti degni di un videogame. Livermore dichiara di essersi ispirato, assieme al suo team, al film del 2010 “Inception” di Christopher Nolan.

Il tutto potrebbe essere letto come una proiezione delle menti criminali dei protagonisti, presentati come lucidi geni del male, spregiudicati arrampicatori, volti al potere, alla gloria, alla ricchezza; paghi di una bella vita che si svolge in un imponente grattacielo anni venti, ricolmo di ogni amenità e in cui i superalcolici la fanno da padrone.

Ai sontuosi saloni si accede solo tramite un ascensore, che, sbucando lentamente dal sotto placo, è quasi una gabbia, sia fisica che mentale. Proprio in questa temporanea prigione Macbeth e Banco cantano il duetto “Due vaticini compiuti or sono”. Arrivati al piano, nel cupo salone del potere, il “Pensier di sangue” pare compiuto e ogni dubbio svanisce dalla mente di Macbeth per avviarsi sulla china del delitto e dell’omicidio. Lady Macbeth appare fin da subito cinica e determinata, una donna di potere in sfavillante abito rosso, fuma e sorseggia brandy, soggiogando, anche sessualmente, il più debole marito.

Se in Macbeth l’ambizione è a livello istintuale, un desiderio senza pianificazione; nella Lady è invece malvagia e geniale lucidità, programmazione e calcolo. Questa dicotomia è resa molto bene, anche grazie alla credibile recitazione di entrambi i protagonisti.

Livermore cerca di caratterizzare i personaggi e di attualizzare la vicenda con chiari rimandi alla contemporaneità: il Re Duncano tiene un piccolo discorso alla folla utilizzando un pulpito con microfoni, pulpito che ritornerà anche nel finale per l’esortazione alla guerra di Macduff e Malcolm; anche la Lady, da perfetta consorte del nuovo Re, saluta istituzionalmente gli invitati. Il riferimento agli stilemi politici attuali è evidente. Non è poi un caso che Malcolm e Macduff, vinta la battaglia finale e ucciso il tiranno, rinchiudano nuovamente il popolo dietro la stessa gabbia dove li aveva relegati Macbeth. Cambiano i governanti, non la vocazione oppressiva del potere.

Questa e altre cose sono molto buone, come già detto la caratterizzazione dei due protagonisti, altre decisamente scontate come il viaggio in macchina iniziale di Macbeth e Banco, nei panni di due non meglio precisati gangster sanguinari.

Non sempre a fuoco le grandi scene corali delle streghe, che in realtà sono la folla frenetica della capitale del potere; lo staff burocratico del governo totalitario; oppure ancora un gruppo di donne impegnate, nella scena dell’apparizione degli spiriti, in una improbabile seduta spiritica intorno ad un tavolino a tre gambe. Anche in questo caso, come in molte altre scene corali, nonostante la sbandierata ricerca di innovazione registica, si ricorre alla più scontata prassi di messa in scena: i re evocati dalle streghe passano da una parte all’altra del palco proprio come da didascalie verdiane. I cori sono principalmente masse ben disposte a proscenio.

Le scene dei ballabili sono invece efficacemente nobilitate dalle coreografie di Daniel Ezralow, che ha il merito di creare, con il suo stile contemporaneo, una proposta originale, ove partecipano anche non ballerini come Ildar Abdrazakov e la sorprendente Anna Netrebko, impegnata in un a solo con il corpo di ballo.

La scenografia e i led wall

Dal punto di vista scenografico, il regista riprende la sua consueta cifra stilistica, basando il focus della scenografia su complesse e interessanti immagini, indubbiamente ipnotiche e coinvolgenti, riprodotte da un imponente led wall sullo sfondo. Certo la loro presenza costante, il ritorno alle scene cittadine per il potere, o a quelle del bosco per le scene di Banco, le rende in qualche modo ripetitive, anche se spesso opportunamente relazionate alla musica, come quando il cielo si accende di fulmini in corrispondenza degli acuti della Lady.

Alla lunga però diventano scontate, specialmente quando insistono sul naturalismo descrittivo, come per la citazione della centrale di Battersea in occasione del coro “Patria oppressa”. Più efficaci invece quando, al momento dei ballabili del terzo atto, volgono decisamente all’astratto, interagendo con i ballerini e creando un immaginario onirico, uno spunto interpretativo.

Questo tipo di tecnologia ha indubbiamente grandi potenzialità anche in ambito teatrale, e Livermore ne è più che consapevole; tuttavia se diventa veicolo di una passiva fruizione di immagini descrittive, si equipara, con i dovuti distinguo tecnologici, alle tele dipinte del teatro ottocentesco. Livermore dunque azzecca alcuni passaggi, ma spesso cade nel descrittivismo, venendo involontariamente meno al suo assunto di partenza: un bosco o una città, per quanto esteticamente accattivanti, non ci toccano proprio nel vivo del nostro presente, ma snocciolano ambienti e completano una scena che per la maggior parte resta un “décor” di antica tradizione transalpina.

Un blocco imprevisto

Oltre ai led wall sullo sfondo, la scena è completata da due imponenti saloni in stile che salgono e scendono su ponti mobili. Il tutto è sicuramente accurato e magniloquente, ne risulta tuttavia una certa grandiosità pletorica, un “troppo”, privo di direzione precisa che non sia quella dello stupore. Stupore che si tramuta in delusione allorché i ponti scenografici si bloccano, come è accaduto alla replica a cui abbiamo assistito, imponendo uno stop forzato alla rappresentazione con grave imbarazzo del maestro Chailly, che ha dovuto interrompere la musica e attendere dieci minuti che il problema non venisse risolto e si proseguisse la recita senza l’uso dei ponti.

Gli interpreti

Dal punto di vista degli interpreti vocali, le piattaforme sociali si sono scatenate e si è letto di tutto e il contrario di tutto, fra partigianerie insopportabili e nostalgie di un passato che non tornerà. Accade sempre ad ogni prima della Scala, accade quando ci sono grandi interpreti che suscitano invidia, discussione, salvo poi essere glorificati appena dismettono la carriera.

Anna Netrebko attira su di sé le maggiori controversie, tuttavia si è dimostrata anche in questa occasione una grande artista, dotata di forte personalità attoriale, aderenza scenica al personaggio e di una linea di canto sempre irreprensibile. Certo l’interpretazione non è uguale a questa o quell’altra diva del passato, ma la sua Lady Macbeth è cantata con intelligenza, partecipazione e con la perfidia richiesta da Verdi. Nel primo atto Anna Netrebko supera d’impeto le impervie difficoltà, regalandoci una lettura personale, ma assolutamente coerente del personaggio, per migliorare via via nel corso della serata con una scena del sonnambulismo da manuale. Se a questo aggiungiamo anche la puntuale e appropriata partecipazione al ballo del terzo atto, abbiamo il ritratto di un’artista completa, giustamente fra le prime del panorama internazionale.

Al suo fianco Luca Salsi è un grande Macbeth, decisamente contemporaneo nel piegare il canto alla parola fino alle più estreme conseguenze, sfumando, accentuando le dinamiche e ottenendo un grande esempio di recitar cantando. Di grande intensità la scena del pugnale, mentre nell’aria finale “Pietà, rispetto, onore” dimostra la capacità di tornare al lirico, unendo la potenza dello strumento ad una sorvegliata linea di canto. Una grande prova anche per lui.

Francesco Meli svetta nella piccola parte di Macduff, interpretando una “Ah, La paterna mano” stentoreo e timbrato. Appassionante poi il duello dei tenori in “La patria tradita”, dove Meli e il peruviano Iván Ayón Rivas (Malcolm) danno vita ad una gara di acuti elettrizzante e che raramente capita di sentire. Ildar Abdrazakov presta la sua voce di basso cantante a Banco, costruendo un personaggio vocalmente a fuoco ma fin troppo sorvegliato nell’interpretazione. Ottimi tutti i comprimari fra cui spiccano Chiara Isotton (Dama di Lady Macbeth) e Andrea Pellegrini (Medico).

Riccardo Chailly dirige in modo accurato e convincente l’orchestra del teatro alla Scala, dando il meglio nei grandi concertati e nelle scene corali, anche grazie all’ottimo coro del teatro diretto da Alberto Malazzi.

Qualche isolata protesta al momento del forzato blocco dello spettacolo, ma, a fine serata, vivo successo per tutti, con molte ovazioni e chiamate a proscenio per i protagonisti.

Raffaello Malesci (13 Dicembre 2021)