Recensioni - Opera

Thaïs alla Scala: esotismo decadente fra citazionismo e trasgressione

Marina Rebeka una grande Thaïs. Sontuosa e polimorfa messa in scena del regista Olivier Py.

Arriva al Teatro alla Scala Thaïs, singolare e complessa opera di Jules Massenet, una proposta interessante in quanto di rara esecuzione, in particolare in Italia, basti pensare che alla Scala c’è un solo precedente risalente al lontano 1942, in piena guerra mondiale.

Tratta dal romanzo del premio Nobel Anatole France, l’opera narra la storia della cortigiana Thaïs, attrice dell’Egitto pagano del quarto secolo e sacerdotessa del culto di Venere. Ella viene redenta dal santo monaco Athanaël, in realtà inconsciamente attratto da lei, brucia il suo palazzo ad Alessandria d’Egitto e si ritira in un monastero per morire di privazioni in aria di santità. Nel mentre Athanaël riconosce i suoi veri desideri verso la donna e le confessa, quando lei è in punto di morte, il suo amore. Thaïs muore redenta, mentre egli rinuncia alla religione e si danna per sempre.

Massenet ne trae una partitura intrisa di rarefatte atmosfere fin de siècle, con una sontuosa orchestrazione di stampo prettamente sinfonico, in cui prevalgono sonorità liquide, orientaleggianti, esaltate da un’ampia orchestra in cui vengono inserite numerose percussioni esotiche e si fa ampio ricorso alle arpe, affiancate dalla celesta e dal Glockenspiel. Numerosi gli echi musicali che rimandano al mondo dell’operetta e a sonorità offenbachiane, senza dimenticare che Massenet si muoveva in un contesto francese fatto di regole precise, come gli obbligati balletti e i grandi pezzi d’insieme.

Una partitura di grande raffinatezza a supporto di un canto scorrevole, basato sulla trasposizione di Louis Gallet, che rinuncia alle rime optando per un flusso ininterrotto e non metrico di parole, una sorta di “poème mélique”, che contribuisce ad esaltare la fluidità delle ampie melodie di Massenet. La trama non ha una drammaturgia basata sui contrasti, ma si risolve in un percorso di redenzione per Thaïs e in un contemporaneo percorso di dannazione per il monaco Athanaël, in cui gli altri personaggi sono solamente dei deboli antagonisti: è il caso del giovane Nicias amante di Thaïs; oppure percezioni piscologiche dei protagonisti, icone canore a descrizione di un mondo. È questo il caso dei cenobiti con il padre Palémon, utili a delineare le ieratiche atmosfere di eremitaggio nel deserto, oppure, in Alessandria, gli interventi delle cortigiane Crobyle e Myrtale, che, insieme al personaggio della Charmeuse, servono a definire il contesto in cui agiscono i protagonisti più che ad avere un reale peso drammaturgico.

Thaïs è drammaturgicamente un’opera a due, in cui si percepisce lo struggimento di due anime perdute, psicologicamente lacerate, sicuramente combattute. È lo specchio degli arrovellamenti della buona borghesia francese di fine ottocento, lacerata fra morale e libertà, stuzzicata dalla trasgressione, apertamente critica verso il conformismo religioso, intrisa di parnassianesimo e di art nouveau.

Olivier Py, insieme a Pierre-André Weitz che cura scene e costumi, crea uno spettacolo sontuoso, con ampia profusione di mezzi, scegliendo la via della citazione, assommando rimandi artistici, giocando con l’arte, con il kitsch, con l’immaginario francese; ne ottiene una specie di lanterna magica in cui si affastellano situazioni, visioni, colori, costumi, scenari, balletti e stili diversi; come se tutto il mondo che circonda i protagonisti fosse un assommarsi di visioni psichiche, un sogno cangiante e spesso patologico.

I risultati migliori Py li ottiene nelle scene in cui richiama la visione di Alessandria d’Egitto, annegata nella perversione, oppure quando teatralizza una specie di sabba durante le tentazioni subite da Athanaël nel deserto. In entrambi i casi si rifà principalmente alle tentazioni di Sant’Antonio dell’altare di Isenheim di Matthias Grünewald, facendo comparire intorno a Thaïs gli orribili animali riprodotti sul retro della più celebre crocifissione. Altro artista a cui si ispira è Félicien Rops, caricaturista belga coevo a Massenet, che amava mescolare immagini sataniche di sesso e perversione. La blasfema crocifissione che viene proposta in scena, e che vede Cristo sostituito sulla croce da una fanciulla nuda, è tratta proprio da un quadro di Rops, di nuovo “La tentazione di Sant’Antonio”.

Riuscito anche l’episodio della Charmeuse, una sorta di incantatrice pagana, per la quale ci si rifà all’arte creola, vestendola da morte, con a corona una sontuosa e sgargiante parure di piume rosse. Quando il palazzo/teatro di Thaïs scompare, lascia il posto a grandi cerchi puntinati di piccole luci rosse, inevitabile pensare a Parigi, al Moulin Rouge, aperto pochi anni prima della genesi dell’opera; di nuovo una citazione insomma fra passato e presente, fra arte e contemporaneità coeva al compositore.

Il citazionismo impera dunque ed è il sugo dell’idea, in una mescolanza di stili che si ispira all’esotismo e all’eclettismo di fine ottocento. Non manca qua e là qualche eccesso, come la citazione dei versi di Dante sulla casa palazzo di Thaïs, in questo caso francamente ridondante.

Accanto a queste scene d’impatto, troviamo l’austero grigiore del convento e dell’eremitaggio dei cenobiti, sfamati da arcigne dame dell’esercito della salvezza, a cui anche Athanaël appartiene. Non mancano i risvolti ironici di questo accostamento, così come i richiami infantili ad una chiesetta che è costruita in miniatura, quasi un disegno per bambini, che viene spostata a destra e sinistra, come fosse ad uso e consumo dei protagonisti; una chiesa utile ai propri scopi insomma, su cui campeggia perennemente accesa una croce al neon. Si ritorna al kitsch, all’eclettismo, all’arte contemporanea. Quando poi Thaïs si ritira nel convento, questo non è altro che grande cubo grigio di mattoni, con dei lampioni che ricordano un campo di lavoro più che un luogo di pace.

A completamento della polimorfa messa in scena vanno aggiunti i numerosi interventi coreutici a cura di Ivo Bauchiero, spesso azzeccati e intriganti, soprattutto quando mescola i generi seguendo la linea registica, con movenze a tratti contemporanee e animalesche alternate a danze di richiamo popolare. Meno azzeccata la celeberrima Méditation, risolta con un passo a due non particolarmente originale.

Spettacolo ricchissimo e sostanzialmente riuscito insomma quello di Olivier Py, che a tratti corre il rischio della sovrabbondanza e dell’eccesso di rimandi, in definitiva della confusione, che resta però sempre ammantata di splendide e mai noiose visioni d’insieme, scenotecnica rigorosa, costumi appropriati. Un grande teatro del diletto visivo.

A dirigere un’Orchestra della Scala in ottima forma, troviamo Lorenzo Viotti, che staglia sonorità sontuose, cangianti e raffinate pur non calibrando sempre ottimamente il rapporto fra buca e cantanti, con quest’ultimi spesso coperti da sonorità eccessive.

Il soprano lettone Marina Rebeka disegna una splendida Thaïs, affascinante e femminile, sorretta da voce sicura e timbrata, regalandoci un personaggio sempre di assoluta credibilità. Supera l’impervia parte con lo smalto e la sicurezza delle grandi interpreti. Al suo fianco non sfigura l’Athanaël del baritono statunitense Lucas Menachem, corretto e sorvegliato con un’emissione sempre sul fiato, ma che avremmo voluto più ieratico e coinvolto nell’interpretare il difficile e combattuto personaggio. Del tutto convincente sia scenicamente che vocalmente il tenore Giovanni Sala, Nicias; dotato di bella voce lirica, sa trovare i giusti accenti per quello che è la versione francese del tenore di carattere, anticipata da Wagner con il Loge dell’Oro del Reno e che troverà altro degno repertorio nel di poco successivo Erode straussiano. Federica Guida sfoggia voce sicura e accattivante nella piccola parte della Charmeuse, ottimamente affiancata da Caterina Sala e Anna-Doris Capitelli come Crobyle e Myrtale. Palémon era lo scolastico basso coreano Insung Sim.

Bel successo e lunghi applausi per un’opera complessa che meriterebbe maggiore attenzione nei cartelloni lirici.

Raffaello Malesci (22 Febbraio 2022)