Convince il Grand Opéra di Halévy nell'allestimento di Stefano Poda con Daniel Oren sul podio
Era un gradito ed atteso ritorno quello de “La Juive” di F. Halévy al Teatro Regio di Torino: il grand-opéra (1835) mancava infatti dal teatro dal lontano 1885 e la direzione artistica lo ha giustamente scelto quale titolo inaugurale della stagione 2023/2024 affidandosi alle sue maestose e coinvolgenti melodie.
La nuova produzione offriva più di un motivo di interesse: il riascolto di questa partitura complessa e dalla travolgente drammaticità, la presentazione di un nuovo allestimento del regista Stefano Poda e l'ascolto di un cast vocale di estremo interesse.
La Juive, chiara ed autentica espressione del grand-opéra francese (genere che amava costruire situazioni dal forte impatto drammatico intorno a potenti temi portanti, in questo caso quello religioso), è un melodramma dall’ardua interpretazione scenica in quanto si pone perennemente in bilico tra un nucleo dalla robusta e forte contemporaneità (una conflittualità religiosa ancora oggi tragicamente irrisolta) ed una forma espressiva che trova nelle convenzioni operistiche di primo Ottocento la sua forza ed il suo limite.
Stefano Poda non sembra discostarsi troppo dalla personale filosofia che fa sempre da sfondo (il regista non ne fa segreto) ad ogni suo lavoro. Dunque anche in questo allestimento è presente un massiccio uso di mimi (sempre bravissimi) che con le loro rapide e quasi disarticolate corse (che sembrano quasi simulare un basico teatro danza) hanno la funzione di visualizzare l’universo del regista.
Una grande scritta in latino tratta dal “De rerum natura” di Lucrezio “Tantum religio potuit suadere malorum” (“a tanto male poté indurre la religione”) domina lo spazio scenico, richiamando direttamente l’attenzione su questo innegabile quanto tragico dato di fatto che la storia dell’uomo ha in molti suoi momenti dimostrato. L’idea della croce come simbolica fonte centrale di conflitto e sofferenza è posta da Poda in una posizione centrale rispetto al palcoscenico e si sviluppa attraverso tutta una serie di immagini che sembrano costantemente rafforzarne la potenza anche attraverso la magnetica proiezione a fondo palco di una intricata selva di uomini crocifissi.
In un palcoscenico diviso a metà (soluzione non nuova ma certo di bella intensità estetica) si confrontavano poi due mondi opposti che, pur non dialogando tra loro, sembravano vivere la stessa vita, dominati da una struttura sospesa e rotante, quasi un astrolabio, incombente su tutto con la sua eterna e inarrestabile rotazione. La riproduzione durante la pièce di alcuni tableaux vivants rappresentanti la Passione di Cristo pareva inoltre ulteriormente rafforzare la riflessione su questa eterna guerra anche se alcun simbolo del mondo ebraico (a parte la differenza cromatica che distingueva i diversi gruppi) era chiaramente visibile in scena. Dunque al conflitto tratto dal potente dramma di Scribe non sembrava corrispondere un’uguale intensità emotiva in palcoscenico, spesso risolta in magnetica ribalta anche grazie a soluzioni di bell’efficacia estetica (III Atto). La buona intuizione che cercava nella reiterata gestualità l’inizio e la fine di un credo (la ripetizione ossessiva del segno di croce diventato quasi un codice di segni scomposto e privo di senso) ed anche un uso più teatrale e meno autoreferenziale del corpo dei mimi avrebbero potuto in parte donare allo spettacolo quel drammatico respiro così potente in partitura ma il tutto è sembrato un po’ sacrificato sull’altare della ricerca dell’effetto.
In sostanza infatti, pur impostata con indubbia professionalità, mancava alla realizzazione registica dell’opera proprio una potente concezione di fondo, costruita intorno ad un’idea che potesse approfondirne o scandagliarne la drammaturgia, ma probabilmente anche la sua assenza era di per sé il risultato di una precisa scelta, opinabile ma legittima.
La decisione di mettere in scena una partitura imponente (quasi quattro ore di sola musica con pochissimi tagli) come La Juive è certo segnale di forte impegno da parte del teatro torinese che per affrontarlo al meglio ha chiamato un cast davvero eccellente.
Concentrata su una vocalità perennemente in bilico tra una scrittura spesso impervia ed una chiave interpretativa profonda e dall’intensa introspezione, l’opera richiede infatti un gruppo di interpreti che sappia ben sfaccettare la parola ed usi l’accento per scolpire il dramma dei personaggi.
Gregory Kunde, qui al suo debutto come Éléazar, rende chiaro il perché questo ruolo sia stato, e fin dalla sua prima apparizione, amatissimo dalle grandi personalità tenorili che trovavano nella sua scrittura mille occasioni per mettere in evidenza le proprie peculiarità interpretative ed anche Kunde non fa in questo eccezione. Il suo canto, solidamente poggiato su di un dominio tecnico che ha del prodigioso, attacca e scandisce con misura la parte declinandola in piani, mezzevoci e violenti declamati attraverso una padronanza del fiato e dell’accento che rende il tutto fluido ed espressivo. Così il personaggio viene tratteggiato sia nell’inflessibile ferocia sia nella dolente e conflittuale affettività (mirabile il suo “Rachel , quand du Seigneur“ dove il canto si muta in sospiro) e la sua complessità emerge senza inutili e sterili declamazioni ma per la pura essenza della parola.
Molto bene anche Mariangela Sicilia quale Rachel che, attraverso la sua vocalità e senza andare alla ricerca di sonorità che non le appartengono, ha declinato il suo potente e difficile personaggio con un taglio interpretativo sempre sensibile e dolente. Seduttiva e sofisticata l’Eudoxie di Martina Russomanno sfoggiava un timbro molto interessante ed un bel gioco chiaroscurale risolto attraverso un ottimo sostegno tecnico. Correttamente ben impostato sotto un profilo vocale ed interpretativo si poneva il tenore Ioan Hotea quale Léopold. Riccardo Zanellato ha reso il complesso personaggio del Cardinale Brogni sfruttando la sua sfaccettata e nobile vocalità con un uso dolente ed attento di un intenso dinamismo espressivo. Completavano il cast Gordon Bintner (Ruggiero), Daniele Terenzi (Albert),Rocco Lia (Un araldo), Leopoldo Lo Sciuto (Un ufficiale dell'Imperatore), Lorenzo Battagion ( Un uomo del popolo), e Roberto Calamo ( Un altro uomo del popolo). Molto bene il Coro del teatro Regio di Torino diretto da Ulisse Trabacchin.
Daniel Oren alla guida dell’orchestra del teatro non è nuovo a questa partitura che ha risolto calibrandone con misura gli aspetti più contraddittori e cercando di trasmetterne il significato attraverso una lettura sottile ma coinvolgente nella sua complessità.
Gli applausi entusiastici per tutti gli interpreti ed il direttore premiavano indubbiamente il coraggio degli organizzatori e costituivano un eccellente incipit per la presente stagione torinese.