Recensioni - Opera

Tosca a Novara: spirito e sangue tra le tele di Gasparro

L’arte della “scenica scienza” e la potente sinergia tra mondi diversi

Novara chiude in bellezza la Stagione d’Opera con una Tosca di grande successo, in questo fortunato allestimento affidato alla sapiente guida di Renato Bonajuto.

La dichiarazione d’intenti è ben precisa e molto ben sintetizzata in un passaggio delle note di regia, che abbiamo piacere di riportare qui di seguito: «Io non credo che esista un modo di fare teatro “tradizionale” inteso come “fuori moda”, ma piuttosto una via di condurre l’azione teatrale in modo serrato e contemporaneo nei gesti, nei comportamenti, nel modo di relazionarsi tra loro dei personaggi, pur rispettando l’originale collocazione temporale del libretto».

Una teoria affascinante e pienamente condivisibile che genera grandi aspettative, per nulla disattese (e anzi superate) nell’assistere a questo spettacolo.

In ogni singolo passaggio dell’opera è evidente il maniacale lavoro di dettaglio sull’intenzione teatrale di ciascun artista in scena – protagonisti e parti di fianco – dai più impercettibili movimenti e sguardi fino al crudo realismo di cruente torture, accasciamenti, violenze, con un esito d’impressionante realismo dal sapore cinematografico ma pur sempre contenuto nella giusta misura, con intelligenza, senza mai scivolare in eccessi grotteschi.

Anche l’impianto scenico è di stampo tradizionale solo in apparenza. La Roma papale di quel Giugno 1800 è splendidamente ricostruita negli spazi progettati da Danilo Coppola: non fondali piatti e impolverati, ma scorci profondi e otticamente imponenti, in eleganti riproduzioni più suggestive che letterali di Sant’Andrea Della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo. A impreziosire e rendere dinamiche queste vedute contribuiscono le belle luci di Ivan Pastrovicchio (con una menzione speciale alle variazioni delle sfumature nel cielo del terzo atto, con l’avanzare dell’alba) e i costumi di Artemio Cabassi, assai curati nelle cromie e nella selezione dei tessuti.

Ma il più potente valore aggiunto nella componente visiva di questa produzione è di certo la collaborazione con il giovane pittore barese Giovanni Gasparro, tra i più affermati artisti figurativi del nostro tempo, nonché raro esponente dell’arte sacra contemporanea.

Le sue tele - in gran parte di repertorio e altre inedite – riempiono di forza e significato la scena, dal misterioso ritratto incompiuto su cui lavora Cavaradossi nel primo atto al San Michele Arcangelo che veglia sul tragico epilogo, passando per le pale d’altare e soprattutto per l’imponente parete nella camera farnesina di Scarpia, ove si ricrea una vera e propria quadreria con circa una trentina di cornici dorate di varie dimensioni.

I dipinti di Gasparro si sposano perfettamente con il cuore del capolavoro pucciniano nella coesistenza di devozione religiosa, carne, passione, spirito, sangue: una ricerca artistica nuova che oscilla tra reminiscenze caravaggesche nell’uso drammatico della luce e del colore e un immaginario trascendentale che rimanda idealmente all’iconografia sacra del Quattrocento, pensando in particolare al Cristo Deriso del Beato Angelico o agli Arma Christi di derivazione fiamminga (tratto distintivo in questo senso sono le mani spesso ripetute più volte che si moltiplicano come apparizioni oniriche e dinamiche - nella Maddalena così come in altri lavori che vediamo esposti nell’atto secondo – cifra stilistica ben riconoscibile dell’artista).

Una così accurata selezione non poteva che garantire l’ottimo esordio di un pittore che per la prima volta esce dall’atelier e affronta il sipario dell’Opera, misurandosi con una nuova dimensione. Un’operazione sperimentale ma quantomai indovinata, forte dell’evidente sinergia creatasi tra le varie figure coinvolte, che fa di questo allestimento un piccolo gioiello di grande valore artistico e teatrale.

In questa affascinante cornice non è da meno la soddisfazione sul piano musicale, grazie alla bacchetta esperta di Fabrizio Maria Carminati alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana e ad un cast ben assortito. La direzione spinge principalmente su sonorità corpose e vibranti più che sulle sospensioni liriche, risultando comunque sempre coinvolgente e ben calibrata tra buca e palcoscenico.

Nel ruolo del titolo, Charlotte-Anne Shipley fa uno splendido lavoro dipingendo una Floria Tosca fieramente risoluta più che visceralmente passionale, un’interpretazione forse insolita che conferisce una composta eleganza alla costruzione del forte carattere della primadonna, dandone un’efficace chiave di lettura. Con vocalità corposa e una linea di canto sempre ben calibrata, il soprano inglese padroneggia con generosità e trasporto ogni passaggio, culminando in un “Vissi d’Arte” struggente accolto da calorosi applausi.

Meritatissimo successo di pubblico anche per Luciano Ganci, ad oggi probabilmente tra i migliori e più promettenti Cavaradossi disponibili sulla piazza, che non disattende le aspettative regalando una prova maiuscola. La voce è sempre solida e ben sostenuta, poderosa negli sfoghi in acuto e accuratamente modulata nelle mezzevoci, con un fraseggio sempre ricercato e gestito con estrema cura. Il suo “E lucevan le stelle” è accolto da vere e proprie ovazioni a scena aperta con corale richiesta di bis, generosamente concesso dal tenore e da Carminati dopo un complice sguardo d’intesa.

Meno a fuoco purtroppo lo Scarpia di Francesco Landolfi. L’esperienza e la sapienza scenica dell’interprete sono evidenti, ma la prova vocale appare lacunosa e discontinua, priva di quel mordente e quella profondità capaci di dare corpo in modo credibile all’autoritaria, lasciva e satanica essenza del Barone.

Brillante Stefano Marchisio nel doppio ruolo di Sagrestano e Sciarrone, capace di impersonare entrambi con intenti completamente diversi e altrettanto convincenti: eccentrico il primo e viscidamente spietato il secondo.

Incisive anche le prove di Graziano Dallavalle (Angelotti / Carceriere) e di Saverio Pugliese (Spoletta), non solo ben cantanti ma anche interpretativamente scolpiti a tutto tondo.

Buona la prova del Coro San Gregorio Magno istruito da Mauro Trombetta e del Coro di Voci Bianche guidato da Paolo Beretta e Alberto Veggiotti.

Successo senza riserve tributato a scena aperta e al calare del sipario, in un Teatro Coccia gremito in ogni ordine di posto che attende con alte aspettative anche la prossima stagione.

Camilla Simoncini