Esteticamente accattivante ma troppo “seduto” lo spettacolo di Hugo de Ana. Discreta l’interpretazione attorale e vocale
Il Teatro Comunale di Bologna inaugura la stagione con una nuova produzione di “Tosca”, l’immortale e sovra rappresentato capolavoro di Giacomo Puccini.
Si sceglie di andare sul sicuro affidando regia, scene e costumi ad uno dei registi internazionali più quotati e ormai di lungo corso come l’argentino Hugo De Ana; basterà ricordare che nel corso dell’anno appena iniziato, oltre a questa Tosca, allestirà Ernani a Roma, Norma a Sofia, Le Comte Ory a Pesaro e un’altra Tosca ad Atene.
De Ana per Bologna sceglie un’impostazione sostanzialmente classica, ambientata all’epoca dei fatti. La scena presenta grandi portoni bugnati, crocifissi sghembi e la imponente mano tridimensionale dell’angelo che sovrasta la celebre fortezza romana, posizionata in ogni atto in modo diverso. La disposizione coerente ed estetica di questi elementi suggerisce gli ambienti più che descriverli, li accenna per rimandi ed è in questo senso interessante, anche se manca di un qualsivoglia taglio interpretativo. Se a ciò aggiungiamo che la scena è completata da un allestimento di attrezzerie sostanzialmente naturalistiche a cui non ci si fa mancare niente, dal tavolo di Scarpia con tovaglie, bicchieri e bottiglie; al quadro della chiesa con annesso armamentario di pennelli e ciotole; dobbiamo constatare che la scena in definitiva viene relegata a ruolo di decoro. Classici ed eleganti i costumi, sempre a firma dello stesso De Ana, con preziosismi sontuosi nella scena del “Te Deum”, anche se quest’ultima richiama in minore quella già messa in scena dal regista qualche anno fa all’Arena di Verona.
Attenzione al dettato del libretto, che viene seguito in modo coerente e spesso anche attento, cesellando diversi particolari scenici interessanti; una scena coerente ed esteticamente apprezzabile; dei costumi ben fatti e concepiti nel solco della precisione storica. Insomma potremmo dire, e a ragione: “tutto a posto”.
In realtà, come si suole dire: “tutto a posto, niente in ordine”. Lo spettacolo di De Ana ci regala infatti una piacevole serata all’opera, tuttavia, uscendo alla fine di ogni atto, cresce inarrestabile la sensazione che manchi qualcosa; che il “tutto a posto” sappia di eccesso di mestiere e dall’eccesso di mestiere alla banalità il passo è terribilmente breve. Insomma lo spettacolo di De Ana lascia in bocca la sensazione di un buon piatto, ma mangiato troppe volte, di un ristorante professionale certo, ma che forse non ha più voglia, o il tempo, di proporre un qualche manicaretto non dico trasgressivo ma almeno originale.
Lo stesso dicasi per gli interpreti, bravi e appassionati, ma spesso pedissequi nell’interpretazione, abbandonati, probabilmente per mancanza di prove, all’estro attoriale personale, che a volte è sufficiente, altre però non basta. Così si scade nel gesto esteriore, nell’amore recitato in modo finto e convenzionale, nel “io canto bene e tanto vi deve bastare”. Non di questo ha bisogno il teatro d’opera oggi, tanto più che Puccini già era modernissimo allora e richiederebbe ai suoi interpreti una credibilità assoluta da vero cantante attore.
Cosa che purtroppo non abbiamo ravvisato nell’interprete di Tosca, Maria Josè Siri, che pur impegnandosi coscienziosamente nei dettami e nei movimenti suggeriti dalla regia, recita in modo convenzionale senza dare vera credibilità al suo rapporto con Mario, il tenore Roberto Aronica, anch’egli assolutamente freddo nel rapporto con l’amata. Certo entrambi si riscattano con il canto, precisa e dotata di voce potente la prima, dalla bella linea di canto e dalla grande omogeneità nei registri il secondo, tuttavia non giungono ad essere convincenti nel momento in cui devono assommare il canto alla recitazione. Se vogliamo è il paradosso di una regia così classica, tutto è scritto e tutto deve essere riprodotto, rivissuto ogni sera in base alle circostanze date direbbe Stanislavskij, ma se questo meccanismo si inceppa di colpo tutto suona se non finto sicuramente di maniera.
Di due passi più vicino al rinascimento che alla maniera invece il baritono Claudio Sgura, uno specialista nel ruolo di Scarpia, con lui il personaggio funziona sia vocalmente che scenicamente. Dotato di una voce eminentemente drammatica che riesce a piegare ad accenti raffinati, cesellando il fraseggio da fuoriclasse, non è da meno come interprete delineando uno Barone Scarpia intriso di perfida voluttà, quasi un sadico che gode forse più del suo potere che del desiderio irrefrenabile per Tosca. Accanto a lui brilla anche Maria Josè Siri, infatti i due sembrano, nel secondo atto, trovare quella sintonia necessaria alla credibilità e azzeccano una bella infilata di scene sempre sul dettato drammatico e supportate da una appassionata interpretazione vocale.
Nicolò Ceriani è un sagrestano ottimale, dotato di una voce ficcante, sempre perfettamente sorretta sul fiato, fa piazza pulita di tutti i vezzi d’antan e ci regala un personaggio sempre credibile e in parte. Completano dignitosamente la compagine della serata Christian Barone, Bruno Lazzaretti, Tong Liu, Raffaele Costantini e Francesca Pucci.
Daniel Oren dirige con il piglio che gli è solito l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, puntando su sonorità corrusche senza mai perdere di vista l’equilibrio fra buca e palcoscenico, di cui è sommo maestro.
Pubblico numeroso al Teatro Comunale e molti applausi meritati per tutti gli interpreti.
Raffaello Malesci (04 Febbraio 2022)