Recensioni - Opera

Tra Shakespeare e Verdi il Falstaff di Proietti

Nell’anno del centenario della sua morte siamo ormai abituati a sentir parlare di Giuseppe Verdi in ogni occasione, e gli allesti...

Nell’anno del centenario della sua morte siamo ormai abituati a sentir parlare di Giuseppe Verdi in ogni occasione, e gli allestimenti delle sue opere costituiscono la spina dorsale di molte stagioni operistiche. Risulta d’altra parte certamente più strano doversi confrontare con lui anche all’interno di una stagione di prosa; eppure questo è successo nella messinscena di “Falstaff e le allegre comari di Windsor” curata dalla coppia Gigi Proietti (regista) e Giorgio Albertazzi (protagonista) per l’Estate Teatrale Veronese.
In questo caso si è andati ben al di là del semplice uso di brani tratti dall’opera lirica come musiche di scena, infatti alcune melodie venivano riprese e cantate dai protagonisti stessi, come “leitmotiv” all’interno della rappresentazione (ad esempio:”Quando ero paggio”, oppure “Povera donna” o ancora “Bocca baciata”), per non parlare del finale, in cui al testo originale shakespeariano si è innestato quello scritto da Boito per il Falstaff verdiano.

Francamente non è la prima volta che mi capita di assistere ad una rappresentazione delle “Comari” in cui si opta per questa “conclusione sovrapposta”, e devo ammettere, pur con immaginabile disappunto di puristi e filologi, che la scelta mi ha favorevolmente colpito. Trovo infatti che la filosofia boitiana secondo cui “Tutto nel Mondo è burla… Tutti gabbati” serva a rafforzare una lettura incentrata sull’ironia e sulla leggerezza che, a mio avviso, è di estrema attualità e consente una chiusa sicuramente più incisiva rispetto al testo originale, pur senza snaturarlo. Oltretutto in questo caso specifico la soluzione registica era di particolare efficacia: infatti mentre Falstaff declamava un breve monologo (opera del traduttore Angelo Dellagiacoma) sul suo rapporto di “buffone” in un Mondo di persone che hanno bisogno di lui, per potersi divertire alle sue spalle, altrimenti non sarebbero nulla, tutti gli altri attori si dirigevano verso un grande specchio che fungeva da fondale, nel quale alla fine insieme a loro si rifletteva l’intera platea del teatro, rendendo quindi tutti nel contempo attori e spettatori di quella grande burla che è la vita.

Va detto che questo tono giocoso ha costituito la chiave di lettura su cui si è indirizzato il regista; infatti tutto lo spettacolo si è svolto costantemente su toni caricati, spesso macchiettistici e sopra le righe, fino a giungere a vere e proprie scene in cui gli attori si sganciavano dal testo creando dei piccoli siparietti quasi si trattasse di Commedia dell’Arte.
Se da una parte questa soluzione aveva lo scopo, peraltro non sempre raggiunto, di mantenere comunque un ritmo brioso e scoppiettante, dall’altro ha reso più difficoltoso un maggiore scavo dei personaggi che quindi alla fine sono risultati un po’ bidimensionali e stereotipati. La gelosia di Ford, ad esempio, non ha mai avuto quei tratti foschi ed a volte patologici che ne farebbero un precursore di Otello, mentre l’atteggiamento delle due comari è sempre stato talmente canzonatorio e distaccato da non far mai sorgere nemmeno per un secondo il sospetto che forse forse con Falstaff ci sarebbero potute anche stare. A ciò contribuiva anche la caratterizzazione fisica scelta per il protagonista che non lo mostrava come il gioviale grasso ubriacone che l’iconografia ha tramandato, bensì come un vecchio cadente e logoro che avrebbe stimolato istinti di tutt’altra natura. A questo inoltre va aggiunta una recitazione stanca e sottotono di Albertazzi che si staccava di molto dalla lettura proposta dagli altri suoi colleghi.
La sensazione che ho avuto è stata quella che il personaggio non fosse fino in fondo nelle sue corde, infatti se in alcuni casi la sua indiscussa esperienza sul palcoscenico gli ha consentito di raggiungere risultati di inarrivabile lirismo, come per esempio nel bellissimo finale o nei momenti di sconforto e malinconia, il Falstaff allegro e guascone è completamente mancato. Si è visto invece un protagonista stanco, a tratti assente, un po’ generico, che in più occasioni ha manifestato incertezze, inciampando sul testo e rallentando alcune scene. In sostanza un’interpretazione a mio avviso discontinua ed ibrida, forse non assecondata dalla regia stessa che, come detto in precedenza, non consentiva di indulgere troppo sul lato introspettivo dei singoli caratteri e quindi non ha concesso al protagonista di operare in un campo a lui forse più congeniale.

Con questo non vorrei però si pensasse ad una messinscena non all’altezza delle aspettative perché così non è stato. Infatti oltre ad Albertazzi la compagnia vantava un cast che ha fornito prove nel complesso efficaci. Su tutti la straordinaria Quickly di Virgilio Zernitz, che si è dimostrato sicuramente il migliore nel saper portare il testo shakespeariano e nel saperne trarre i maggiori spunti comici, pur senza ricorrere a battute volgari e doppi sensi di dubbio gusto ai quali invece i suoi colleghi hanno in qualche caso fatto ricorso, peraltro con scarso successo. Positiva anche se forse troppo esteriore la prova di Vittorio Viviani, che ha sì brillantemente risolto il ruolo di Ford attingendo alla sua verve partenopea, ma quest’ultima non sempre si è rivelata sufficiente. Convincenti ma non entusiasmanti sono apparse anche Sandra Collodel e Fiorella Rubino, rispettivamente Alice e Meg, le quali dopo aver sostenuto eccellentemente la scena della lettera (supportata da una brillante idea registica), hanno mostrato qualche difficoltà nel mantenere sempre brioso e sostenuto il rimo delle loro scene, dando a volte l’impressione di un’allegria forzata e non spontanea. Daniele Griggio era un Page effeminato al quale era stato eliminato un numero tale di battute da rendere decisamente difficoltoso il proporre una figura più articolata.
Efficaci e professionali gli altri interpreti che hanno fornito una prova di buon livello in uno spettacolo che, seppur con qualche sbavatura, ha mostrato un’indubbia vitalità, apprezzata da un pubblico record in quanto ad affluenza, che al termine ha tributato calorosi applausi a tutti ed un’ovazione a Proietti.

Davide Cornacchione