Recensioni - Opera

Un dubbio Shakespeare ed una magnifica Stuarda al Vittoriale

Per un po’ di tempo assente o comunque bistrattato, da quest’anno il teatro di prosa è finalmente tornato al Vittoriale grazie anc...

Per un po’ di tempo assente o comunque bistrattato, da quest’anno il teatro di prosa è finalmente tornato al Vittoriale grazie anche a produzioni di notevole valore supportate da grandi interpreti di fama indiscussa.
Il primo appuntamento infatti è stato con le “Allegre comari di Windsor” della coppia Poietti – Albertazzi di cui ho già riferito in occasione del suo debutto veronese. A questo sono seguiti, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, altri due spettacoli ovvero: “Tutto è bene quel che finisce bene” di William Shakespeare e “Maria Stuarda” di Dacia Maraini; ed è proprio di questi di cui riferisco in questo articolo.
L’allestimento shakespeariano, probabilmente qui al suo debutto, non ha particolarmente convinto né dal punto di vista della recitazione né da quello della regia. Francamente l’impressione che si è avuta è stata quella che la massima preoccupazione di chi avesse realizzato lo spettacolo fosse stata quella di ridurre al minimo i costi. Il numero dei ruoli in scena è stato così praticamente dimezzato, il che ha costretto ad operare sostanziali tagli nel testo, tagli che in alcuni casi ne hanno a mio parere compromesso la chiarezza e la fluidità, mentre dal punto di vista visivo le scenografie erano ridotte semplicemente ad una serie di pannelli neri che delimitavano lo spazio scenico.
Non che queste premesse debbano per forza costituire motivo di perplessità, anzi, Peter Brook con risorse ancora minori riesce a trarre dai suoi attori risultati straordinari tali da rendere superfluo qualsiasi orpello accessorio. Il problema in questo caso è stato che né la regia di Enrico Petronio né tantomeno gli interpreti chiamati in causa sono stati in grado di non far pensare a tutto quello che mancava.
Per quanto riguarda l’apporto di Petronio, più che di una regia mi sentirei di parlare di una più o meno frettolosa messinscena, che, se facciamo eccezione per alcune scelte di natura simbolica, quali un pallone a forma di mappamondo di chapliniana memoria, oppure l’uso delle maschere che rappresentavano la malattia del re, o ancora alcuni movimenti che ricordavano la scherma, si riduceva a coordinare l’entrata e l’uscita dei personaggi o poco più. L’unica scena che a mio avviso presentava una costruzione articolata e d’effetto è stata quella del matrimonio, sulle note dei “Pescatori di perle” di Bizet cantate dagli attori; per il resto il tutto si è dipanato secondo i criteri di una pallida monotonia, dettata anche da un uso abbastanza povero e schematico delle luci.
Anche dal punto di vista della recitazione le cose non sono andate meglio: fatta eccezione per la brava Francesca Inaudi, che ha saputo fornire un’Elena intensa e variegata dal punto di vista dell’interpretazione, e per l’interessante Diana interpretata da Candida Neri, il resto del cast ha fornito prove decisamente mediocri. Alessandra Roca, nel ruolo della contessa ha manifestato evidenti segni di insufficienza vocale tanto da essere stata due volte “beccata” dalla gradinata che reclamava più voce. Luigi Distinto nel ruolo di Parolles non aveva nulla dell’arguzia e della vitalità che ci si aspetterebbe dai “fool” shakespeariani. Decisamente privi di spessore il re di Michele Radice, il Bertramo di Emanuele Fortunati, ed i due Dumaine di Christian Poggioni e Barbara Esposito, che hanno contribuito a rendere ancora più dubbio ed anonimo un allestimento che già di suo presentava ben poche caratteristiche di originalità.

Fortunatamente a distanza di pochissimi giorni sempre nello stesso teatro si è avuta la possibilità di assistere ad uno spettacolo completamente diverso e quindi di eccelsa fattura da ogni punto di vista. Maria Stuarda di Dacia Maraini, è un testo che sebbene conti oltre 40 allestimenti in tutto il Mondo, non gode certo di grande popolarità in Italia, eppure si tratta di un lavoro estremamente interessante ed attuale dal punto di vista dello studio della psicologia femminile. Se poi ad interpretarlo sono la più grande attrice di prosa che ci sia in Italia (una straordinaria Elisabetta Pozzi interprete di Elisabetta I) coadiuvata da un’altrettanto intensa compagna di percorso (una brava Mariangela D’Abbraccio nel ruolo del titolo), il risultato non può che essere un trionfo annunciato.
Un ulteriore motivo di difficoltà per chi recita in quest’opera sussiste nel fatto che le interpreti delle due regine allo stesso tempo devono rivestire i ruoli delle rispettive cameriere, per cui, a seconda dei cambi scena, ecco Elisabetta diventare Nanny, cameriere di Maria e Maria trasformarsi in Kennedy, dama di Elisabetta, creando una seria di rapporti estremamente ambigui; per cui ad esempio è Kennedy a suggerire a d Elisabetta di condannare a morte Maria, quella morte a cui Maria stessa agognerà alla fine. E’ superfluo dire come la Pozzi e la D’Abbraccio abbiano egregiamente superato questi ostacoli offrendo prove di rara efficacia. A ciò ha contribuito anche l’intelligente e puntuale regia di Francesco Tavassi che si avvaleva di un complesso ma interessante apparato scenico di Alessandro Chiti che constava di tre ordini di scale disposte a cerchi concentrici le quali, ruotando intorno ad un’asse centrale, fornivano svariate soluzioni sceniche consentendo di passare disinvoltamente dalla prigione alla sala del trono agli appartamenti privati delle sovrane. Grande merito di questa regia è stato quello di aver costruito uno spettacolo estremamente dinamico pur senza mai soverchiare la recitazione delle due interpreti, anzi, cercando sempre di porla in risalto.
Eccezionalmente appropriate e puntuali anche le luci di Luigi Ascione e le musiche di Daniele D’Angelo e Riccardo Barbera.
Uno spettacolo che avrebbe meritato il tutto esaurito e che invece ha visto il teatro pieno solo per un terzo. Si è trattato però di un pubblico partecipe ed attento che alla fine ha tributato applausi entusiastici (meritatissimi) alle due attrici, consapevole di aver partecipato ad una grande serata.

Davide Cornacchione (12 e 16 agosto)