Margherita Palli firma una scenografia di nostalgico sapore ronconiano. Ottima la compagnia di canto
Il Festival Verdi di Parma affida la produzione de “La Battaglia di Legnano” al trio femminile Valentina Carrasco, regia, Margherita Palli, scenografia e Silvia Aymonino, costumi.
La scena di Margherita Palli caratterizza fortemente la messa in scena, prendendo il sopravvento sugli altri elementi grazie a una serie di cavalli riprodotti a dimensione naturale, che occupano perennemente una scena per il resto sostanzialmente vuota.
La Battaglia di Legnano è una storia d’amore proibito, di scrupoli morali che sfociano in un aspro contrasto fra attrazione e fedeltà, fra dovere e passione. Il classico triangolo operistico: con il tenore che ama il soprano, malauguratamente sposatosi con il baritono, avendo dato per morto l’amato. Ovviamente la tresca, peraltro innocente, viene scoperta con grande ira e propositi di vendetta dallo sfortunato baritono. Sullo sfondo la guerra medievale fra impero e comuni lombardi, culminante nella famosa Battaglia di Legnano. Scontro che giunge provvidenziale, poiché il tenore viene ferito a morte in battaglia e permette una chiusa patetica e dolente.
L’arcaico libretto di Salvatore Cammarano è semplicemente funzionale a inanellare una sequenza di scene utili a snocciolare i pezzi chiusi previsti per un melodramma del 1849. Ai tempi il successo fu unanime, ma più per il palese supporto alla causa patriottica italiana che altro. La Battaglia di Legnano sparisce poi dal repertorio e non a caso.
Oggi l’opera risulta teatralmente ostica, a riprova degli alti e bassi di un uomo di musica e teatro come fu Verdi; basti pensare che siamo a solo due anni di distanza da Rigoletto. In realtà fra i due lavori sembra esserci un abisso.
Valentina Carrasco non trova la cifra per leggere questo drammone e si affida completamente alla scenografia della Palli, che va a pescare nelle suggestioni equine montate su carrettini a ruote, quasi a voler fare un omaggio a certe manie di Ronconi, che, si sa, amava sia i cavalli in scena, che i carrettini che andavano avanti e indietro. Silvia Aymonino crea costumi coerenti, in parte storici in parte che si rifanno a guerre più recenti. Il messaggio sotteso: “è una storia che parla al nostro presente”, non deve mai mancare in una produzione che si rispetti. Barbarossa entra su un cavallo impennato, è una statua, un simbolo circondato da un alone di luce. Quando discende dal destriero non trova di meglio che staccare la testa da un cavallo caduto e mostrarla minaccioso ai lombardi ribelli. Il Padrino di Coppola fa capolino, impertinente, nella mente degli spettatori. Ove il dramma diventa più intimo una rete a proscenio ingabbia i protagonisti in un palco desolato, dalla cui oscurità emerge una carrozzina anni sessanta con tanto di infante in fasce. Fasce che, sciogliendosi, diventano il legame evanescente fra soprano e baritono, fra amore e dovere.
Tutto suggestivo, anche grazie alle belle luci di Marco Filbeck, tutto ben fatto, senza dubbio. Certo niente che vada oltre il decoro, con sontuosi tableaux vivant e immagini proiettate a risolvere i punti in cui Verdi avrebbe previsto sfilate di coro e comparse. La Carrasco ha ragione, meglio non farli muovere troppo i cori italiani. Scontato il finale, con il coro disposto con gusto ad occupare la scena, i cavalli atterrati dalla furia della battaglia e il tenore che muore perdonato sul cadavere del cavallo, simbolo di dovere e fedeltà, dilaniato precedentemente dal perfido Barbarossa.
Ottima la compagnia di canto, piazzata dalla regia sostanzialmente sempre a proscenio e con pose e movimenti scontati e ripetitivi.
Su tutti la prova superba di Marina Rebeka, che unisce un’intatta e sicura perfezione canora ad una presenza scenica sempre magnetica e convincente. Il soprano supera di slancio e senza sforzo apparente le notevoli difficoltà della parte. Con lei anche un personaggio improbabile come Lida diviene vero, comunicativo, palpitante di emozioni.
Antonio Poli, Arrigo, ha voce splendida, sonora, omogenea, facile all’acuto e portata con la giusta baldanza tenorile. Vocalmente avrebbe tutto per essere un giovane tenore di riferimento. Purtroppo difetta del magnetismo attoriale del grande interprete e risulta in scena generico e fuori parte. Risolvendo questa mancanza avrebbe tutte le carte in regola per una grande carriera.
Vladimir Stoyanov è stato un Rolando appropriato e corretto, fin troppo sorvegliato nel gestire una vocalità impervia. Riccardo Fassi ha voce educata, ma non un sufficiente peso vocale per la parte e il suo breve intervento risultava sempre coperto dall’orchestra. Corretti gli altri.
Buona la direzione del giovane Diego Ceretta, così come gli interventi del Coro del Teatro Comunale di Bologna.
Applausi calorosi per tutti e una vera ovazione per Marina Rebeka nel finale.
Raffaello Malesci (Domenica 20 Ottobre 2024)