Al Teatro Regio di Parma, secondo cast.
Città ducale, città culturale. Un fiume di gente, a salutare per le vie del centro l’anno magico della città Capitale Italiana della Cultura. Chi, come noi, lo scorso 11 gennaio era diretto al Teatro Regio, dove in pomeridiana era attesa la seconda recita di Turandot, si trovava costretto a parcheggiare lontano, nell’Oltretorrente, o a tentare un colpo di fortuna lungo i viali verso barriera Repubblica. Così, come in un sogno divenuto realtà, Parma si è risvegliata capitale, ed ha snodato la scia colorata di un entusiasmo febbrile quanto radicato nella più salda concretezza emiliana. Turandot, dunque, come primo titolo della Stagione Lirica di questa annata speciale, nella data incastonata tra la prima recita e quella di domenica 12, inaccessibile, che avrebbe visto la presenza del Presidente Mattarella nel Palco Reale.
Un titolo che guarda alla Cina cruda e fiabesca, nel segno dell’ultima creatura, incompiuta, di Puccini. E a sorprendere (positivamente) il pubblico, sempre più internazionale, era innanzitutto un Oriente che la visione di Giuseppe Frigeni sapeva ben difendere dalle laccate atmosfere di un iperdescrittivismo nemico di quello scavo evocativo che la scrittura continuamente sollecita. Un fondale nero pece, a dire un luogo di assenze e totalmente simbolico, dove tempo e spazio indecifrabili sottolineavano una volta di più l’eterna ricorsività che la Città Proibita mette in scena nella sua quotidiana ferocia. Giorni uguali ai giorni, notti insonni, cortei di esistenze ombra. Neri ed essenziali anche i preziosi costumi del coro, come sempre magnifico per plasticità ed efficacia, con la firma di Martino Faggiani come garanzia.
A scandire le stanze di questa vertiginosa spirale d’amore e di morte, avvitata attorno a tre esistenze solitarie ed al tempo intimamente assonanti, enigma nell’enigma, era il gioco di luci e di pannelli scorrevoli che sul fondo, per un attimo, lasciava intravedere orizzonti bidimensionali dai colori monocromi attinti dal sapore millenario. In buca, a dipanare ed intrecciare ad arte i mille fili di quest’ultima sfida pucciniana - l’esotico, il fiabesco, il sentimentale, il grottesco – era, alla testa della Filarmonica dell’Opera Italiana Bruno Bartoletti, Valerio Galli, il quale, sin dal quadro iniziale, è sembrato agire sulla partitura con mestiere e bello spolvero più che sull’investigazione, certo pericolosa in quanto labirintica, di quel tessuto armonico, punteggiato di preziosismi e di trascolorazioni, che dell’opera è la vera sollecitazione. A venir meno era, dunque, la profondità abissale di questo capolavoro sempre sfuggente, guizzante tra atmosfere aspre, come d’altronde aspra e spinta è la vocalità chiesta ai protagonisti, e scenari di liquido lirismo, annidati là sul fondo dove occorre pescarli, se si vuole farli emergere.
Sul palco, a brillare per autorità e, loro sì!, perfetta aderenza al loro ruolo di sagaci contrappunti all’oscura vicenda, erano Fabio Previati, Roberto Covatta e Matteo Mezzaro, rispettivamente Ping, Pang e Pong di bello smalto, così come nitida era la prova di Benjamin Cho nei panni di un Mandarino. Pregevoli senza torreggiare i personaggi principali (l’opera vedeva impegnato il secondo cast). Samuele Simoncini era un Calaf muscolare e giustamente ardimentoso, in alcuni frangenti al limite della spacconeria, a scapito di una precisione in qualche passaggio non perfettamente millimetrica e di una plasticità talvolta risolta con qualche semplificazione. France Dariz, nei panni di Turandot, insisteva a ragione sull’aspetto della fragilità della principessa, rinunciando però sin da subito alla regale crudeltà che solo nelle frasi finali cederà il passo all’umano sentimento dell’amore. Liù e Timur trovavano rispettivamente la voce di Marta Torbidoni e Gerorge Andguladze. Opaco per presenza scenica così come per statura vocale il primo, più convincente la lo sfaccettato profilo della schiava scolpito dal soprano marchigiano, cuore emotivo dell’intera macchina drammaturgica.
Magnifica la scelta del regista, sulle ultime note scritte da Alfano a completamento dell’opera: ai piedi del principe (non più) ignoto e della sua crudele amata ormai vinta dall’amore, straziato dalla granitica fedeltà ad un amore impossibile, il corpo esanime di Liù, straziato eppure trionfante sul tempo e sulla storia. Un incanto.