Recensioni - Opera

VERONA: Ipotesi di Giulio Cesare

Pur essendo titolo di discreta fama, Giulio Cesare non gode certo del richiamo suscitato da altri titoli di tragedie di Shakespear...

Pur essendo titolo di discreta fama, Giulio Cesare non gode certo del richiamo suscitato da altri titoli di tragedie di Shakespeare, quali Amleto, Otello, Macbeth e così via. Prova ne sia il fatto che raramente lo si vede rappresentato all’interno di qualche stagione teatrale. Viene perciò spontaneo mostrare un certo interesse nel momento in cui un’istituzione di prestigio decide di allestirlo facendo oltretutto leva sulla presenza di Giorgio Albertazzi quale protagonista. Purché di “Giulio Cesare di William Shakespeare” si tratti, perché se, al contrario, ci si trova a confrontarsi con l’ennesimo riadattamento creato apposta per il personaggio o per l’occasione, allora una certa perplessità comincia a manifestarsi.
Francamente non sono mai stato troppo favorevole alle riscritture-sforbiciature-interpolazioni di testi compiuti, perché molto spesso queste operazioni, anziché essere spunto di sperimentazione (vedi Carmelo Bene, Liberovici ecc.) nascondono in realtà il compromesso di chi avrebbe voluto ma non ha potuto ed allora si è accontentato. In questo caso specifico la domanda che mi pongo è: Antonio Calenda voleva veramente allestire un Giulio Cesare ed ha dovuto ripiegare su questa soluzione ibrida ma sicuramente meno dispendiosa (per finanze ed energie) oppure era sua intenzione erigere l’ennesimo monumento all’attore Albertazzi ed allora gli è venuto buono questo testo? Questo perché, vista la natura dello spettacolo, l’impressione che si ha è che alla tragedia “Giulio Cesare” questo allestimento porti ben poco di nuovo. Infatti se l'incentrare tutto sulla figura di Bruto (che peraltro è il vero protagonista anche nel testo originale) e sul suo dramma legato alla gestazione dell' omicidio e sul conseguente crollo dei suoi ideali, poteva essere un interessante punto di partenza, il risultato non è stato del tutto convincente.

All'interno di una bella ed imponente scenografia che richiama uno stile monumentale tra l'antico romano e le sue rielaborazioni che sono state compiute in epoca fascista, si muove, in abito bianco di foggia contemporanea, l'attore Albertazzi, pronto a rivivere il dramma di Bruto accompagnato da un coro di ombre-fantasmi della sua coscienza che in alcuni casi si materializzano dando vita ai vari personaggi coinvolti nella vicenda.
Albertazzi domina su tutti, non accontentandosi di Bruto ma prestando la voce anche a Cassio ed Antonio, mentre il resto dell'allestimento è concepito per ruotare intorno alla sua figura, quasi preoccupandosi di non distrarre troppo lo spettatore dalle innegabili doti attorali del protagonista. In sostanza: si assiste ad un grande monologo, o meglio ad un grande monologatore, ma il resto è pura cornice priva di qualsiasi suggestione.
Vero neo dello spettacolo, inoltre, sono i fin troppo frequenti inserti musicali curati da germano Mazzocchetti: melodie che assolutamente stridono con gli improbabili testi cantati dal coro. Non che si pretenda una perfetta simbiosi tra musica e parola ai livelli del binomio Mozart – Da Ponte, ma in questi casi l’attrito è veramente troppo evidente.
Belli e funzionali i costumi di Elena Mannini ed eccellenti le fredde luci di Gaetano Napoletano, che immergono lo spettacolo in un’atmosfera di bianco e nero di grande suggestione.

Alla fine il pubblico ha calorosamente applaudito l’esibizione del protagonista, ma d’altra parte viene anche da chiedersi se alla fine queste proposte anziché presentarsi come nuove possibilità di lettura di un classico non risultino troppo come riproposizione museale di un glorioso passato, soluzione che, in qualunque contesto, lascia più ombre che luci.

Davide Cornacchione 2/7/2002