Nel cinquantenario della sua fondazione il teatro del Vittoriale, riprendendo una tradizione abbandonata da alcuni anni, ha presen...
Nel cinquantenario della sua fondazione il teatro del Vittoriale, riprendendo una tradizione abbandonata da alcuni anni, ha presentato un nuovo importante allestimento di un’opera di D’Annunzio, ovvero de “La figlia di Iorio” considerata dai più come il suo capolavoro.
Al di là delle celebrazioni legate alla particolare ricorrenza, la proposta è stata di notevole rilievo soprattutto in virtù del fatto che il teatro del Vate non ha mai goduto di particolare interesse e visibilità all’interno delle varie stagioni di prosa, per cui la rappresentazione di un suo testo è un appuntamento per molti versi imprescindibile, soprattutto quando il testo in questione non è privo di un indiscutibile fascino.
“La Figlia di Iorio” è l’opera di un profondo esteta della lingua, all’interno della quale la parola è trattata con straordinaria musicalità (si tratta infatti di un dramma in versi) pur mantenendo inalterato il profondo senso evocativo che le appartiene. Il linguaggio parlato dai protagonisti è un linguaggio antico, come antichi sono i riti che si perpetuano all’interno della vicenda. Ma questo senso di arcaicità non suona tale solamente a noi contemporanei che, vivendo in una società in cui azioni, gesti e parole sono perlopiù legati ad una funzione meramente referenziale, ci avviciniamo ad un testo di quasi cento anni fa ormai con l’atteggiamento dell’archeologo, al contrario: questo testo era gia “antico” nell’epoca in cui era stato scritto, perché si riallaccia a tradizioni secolari, perché va a scavare in quelle che sono le più profonde radici della natura umana.
Per questo motivo ho trovato appropriata la scelta operata dal regista Maurizio Faraoni di concepire il dramma come una tragedia greca, perché, come in Eschilo, vi è anche qui un ritorno ad una condizione “primordiale” della vita.
Paradossalmente è stato proprio questo il motivo per cui lo spettacolo non ha funzionato del tutto. Infatti se si sceglie di esaltare la dimensione “rituale” della vicenda, è indispensabile che chi ne è l’officiante si immedesimi sino in fondo in questa condizione, per risultare credibile o quantomeno verosimile. Se al contrario i gesti e le azioni sembrano nati a tavolino e riportati pedissequamente da attori che dimostrano di aver indossato un abito che non gli appartiene, il tutto alla fine suona finto ed un po’ forzato. E mi riferisco in questo caso non solo alle posticce coreografie di Atha Haziioannoy, ma anche ai vari movimenti di massa nel primo atto ed all’inizio del terzo: gesti artificiali e privi della tensione necessaria che al contrario un coro (e soprattutto un coro “greco”) dovrebbe possedere. Un risultato migliore lo si otteneva nel finale del terzo atto, dove, grazie soprattutto all’intensa prova di Erica Blanc nel ruolo di Candia, lo spirito generale mutava e si assisteva ad un’ostentazione violenta di passioni che era sicuramente più coerente con il testo e coinvolgente per il pubblico, che fino ad allora aveva assistito ad una tutto sommato valida prova di attori che però non sembravano sufficientemente amalgamati e immedesimati.
Oltre alla succitata Blanc, vera mattatrice della serata, da segnalare la prova dell’altro grande interprete della serata, ovvero Nino Castelnuovo, il quale si è dovuto confrontare però con il ruolo secondario di Lazaro di Roio. Marco D’Alberti è stato un Aligi tecnicamente corretto ma non sufficientemente intenso in scena, mentre di maggior rilievo è stata la prova di Margherita Adorisio quale Mila di Codra. Appropriati ma non eccelsi i numerosi comprimari, ben 22 attori complessivamente, il che fa sorgere qualche perplessità su una concreta possibilità di inserimento in un circuito (ma su questo mi piacerebbe essere smentito).
Discorso analogo anche per l’aspetto tecnico-estetico: imponenti ma inadatte ed un po’ generiche le scene di Raffaele Golino ed Eugenio Caudai; belli ma a volte inadeguati i costumi di Alessandro Lai, al punto che in più di un’occasione è sorto il dubbio che non si trattasse di abiti creati apposta per l’occasione; suggestive ma spesso imprecise negli attacchi le musiche di Federico Sonetti Amendola; essenziali le luci.
In sostanza uno spettacolo sicuramente apprezzabile e, per molti versi, interessante che oltretutto, nonostante la difficoltà del titolo, è riuscito a riempire il Teatro del Vittoriale quasi per metà, ma che alla fine ha dato anche l’impressione di mancare di una netta connotazione.
Davide Cornacchione 23/07/2002