Recensioni - Opera

Verona: Aida tra tradizione e innovazione

Successo al debutto dell'opera areniana per antonomasia nella stagione delle scenografie ledwall

Il colpo d’occhio è sempre quello. L’incanto della pietra, il fascino millenario di geometrie che abbracciano la scena e fanno dell’anfiteatro per antonomasia un teatro al quadrato. Teatro nel teatro. Da 98 stagioni, l’Arena è la promessa mantenuta di un’emozione che, per i molti assiepati sulle gradinate roventi, non fa temere ore di religiosa passione. Ma, non ce ne voglia chi l’ha preceduta, è con l’arrivo di Cecilia Gasdia in qualità di sovrintendente che la sempiterna suggestione ha trovato radici salde in una programmazione acuta, coraggiosa, abilmente centellinata da chi conosce il teatro e conosce le pieghe più riposte della musica.  E sbaglia chi vede nel corso biografico di questa ex enfant prodige della lirica una biforcazione tra il prima ed il dopo, da soprano in carriera a burattinaio della grande impresa Arena. La musica, nella sua più ampia pluralità di espressioni, di interpretazioni, di approcci, è lì, in ogni scelta. Tradizione ed azzardo - perché è vero che l’Arena vede seduti accanto il melomane a caccia di rarità ed il turista goloso di istanti - ma mai rinunciando ad una precisa visione di fondo. Da ultimo, un dettaglio che non sfugge. Gasdia è sempre lì. Ad ogni recita. Pronta a cogliere ogni segnale, ad intercettare ogni aspetto, a sostenere fino all’ultima maestranza. Mimetizzata tra il pubblico, tra cui spicca per il colore spesso sgargiante delle giacche così come per la chioma d’argento.

L’Arena è spettacolo dal vivo, ed ogni recita è insieme spettacolo e prova generale per la recita successiva. Chi non abbia dimestichezza con la musica fatta, non ha idea, o semplicemente non regge il ritmo. l’Aida dello scorso 26 giugno era una Prima anomala. Prima recita con scene, terza in assoluto, dopo le due date-evento, in forma di concerto, dirette da Riccardo Muti. Anfiteatro gremito, ultimi posti da litigarsi tra gli avventurosi del last second. Gli allestimenti scenici, necessariamente essenziali, a cura di Michele Olcese, incastonavano la vicenda di guerra e di amore in un Egitto restituito agli antichi fasti grazie alle proiezioni digitali che fondevano reale e virtuale in un unico abbraccio. Affascinante l’intuizione di srotolare la vicenda a partire dalla sabbia, quella del deserto che, nei video proiettati, mossa dal vento, rivelava il patrimonio di bellezza e di enigmi sepolti nel suo sarcofago di granelli. Tra queste dune, non ricreate dall’arte ma quanto mai reali, stava il palazzo del Re, con la sua corte di soldati, sacerdoti, messaggeri, schiavi. Qui, in un gioco di moduli polivalenti, le dimensioni pubblica e privata, militare ed amorosa, trovavano un’efficace corrispondenza, grazie anche al sapiente uso delle luci.

Sul podio dell’Orchestra della Fondazione Arena, Diego Matheutz imprimeva all’opera più rappresentata (e più fraintesa) della storia areniana un passo singolarmente interiorizzato, meditativo, forse in più momenti rinunciatario rispetto alle tinte eroiche e sontuose che pur campeggiano nella scrittura verdiana, ma non per questo meno pregevole nel disegno complessivo. La sua Aida sembrava uscire dalla lezione maturata nei tanti anni trascorsi, dopo la formazione nel Sistema della Simon Bolivar, a fianco di Claudio Abbado, di cui il direttore venezuelano è stato assistente. Una lettura nitida ma soprattutto sobria, dunque, a sottolineare più i silenzi ed il non detto, costruita per sottrazione.

In scena era la Amneris di una superba Anita Rachvelishvili a svettare, nella capacità di dare spessore commovente credibilità al suo personaggio troppo spesso soffocato nella scorciatoia della “cattiva” di turno. Una donna sola sotto la corazza-prigione della figlia del Faraone, capace di una vocalità magnificamente brunita in ogni zona e di quelle minuzie espressive – nei fraseggi, nell’arcata di una dinamica perfettamente costruita – che fanno immediatamente capire di essere di fronte ad un’interprete di rango superiore. Non altrettanto convincente era la protagonista dell’opera, Angela Meade, Aida squillante nella vocalità sempre naturale ma mai davvero addentrata nella dimensione più profonda del canto che, privato dei pianissimi e di quelle tarscolorazioni di cui la scrittura è pervasa, rischiava di suonare stucchevole e poco autentica. Sullo stesso piano il Radames di Jorge de Leon, che ha vestito con dignità ma con qualche semplificazione di troppo i panni sempre ardui di Radames. Regale e senza tempo, invece, l’eleganza che Michele Pertusi ha impresso al suo Ramfis, uomo di pace e di saggezza, ambiasciatore di un canto magnificamente plastico mai tentato dalla spettacolarità. Quanto a magnificenza, sontuoso anche l’Amonasro di Luca Salsi, nella sua unica data scaligera: la dignità imperiosa ma mai eccessivamente muscolare del suo canto imprimevano alla figura del re etiope un’autorevolezza aurea, nutrita da quella capacità di lavorare sulla parola scenica, sugli sfumati, dentro alla parola stessa, che Salsi sta esplorando con sempre maggiore efficacia. Pertinenti anche il Re di Simon Lim, il messaggero di Riccardo Rados, la sacerdotessa di Yao Bohui.

Ma Aida è anche coreografie, imprescindibili e qui pienamente azzeccate anche in quanto non soverchianti. Applausi a scena aperta per tutto il corpo di ballo, a partire dalla prima ballerina Eleana Andreoudi. Repliche fino al prossimo 4 settembre, con cast sempre differenti in cui spiccano, tra gli altri, i nomi di Roberto Aronica, Samuele Simoncini, Marcelo Alvarez, Ekaterina Semenchuk, Ambrogio Maestri, Maria José Siri.