Recensioni - Opera

Verona: Convince solo in parte l’Aida del centenario

Il capolavoro verdiano nel nuovo allestimento concepito da Stefano Poda ha inaugurato la stagione numero 100 dell’Arena

In un anfiteatro completamente esaurito, alla presenza di una nutrita rappresentanza di personalità del mondo della politica e dello spettacolo, preceduta dal sorvolo delle Frecce Tricolore e da una pioggerellina che, ritardando l'inizio di un quarto d'ora, ha ricordato quanto possa essere precario lo spettacolo all'aperto, la 100ª edizione dell'Arena di Verona Opera Festival ha preso il via con una nuova produzione di Aida di Giuseppe Verdi nell'allestimento firmato da Stefano Poda.

Il regista, autore anche di scene, costumi, luci e coreografie ambienta la vicenda in una società distopica nata probabilmente dopo la caduta della civiltà, rievocata da una colonna corinzia abbattuta sulla destra delle gradinate e da rottami di apparecchiature tecnologiche adagiate sulla sinistra. I dominatori, ovvero gli egiziani, sono rappresentati da costumi su cui spiccano geroglifici e da copricapi antropomorfi mentre gli oppressi, cioè gli etiopi, hanno il corpo tatuato di scritte -particolare quest'ultimo visibile solo in televisione o se muniti di un buon binocolo- quasi fossero dei libri viventi: gli ultimi testimoni di una cultura che si vorrebbe sopprimere per tornare ad una società tribale, oppressiva, che si identifica in simboli elementari tra cui quello della mano che, oltre ad incombere, colossale, sullo sfondo, campeggia aperta in cima alle lance dei sacerdoti e chiusa a pugno su quelle dei soldati (è forse la mano che il “Nume custode vindice” evocato da Ramfis distende sul suolo egizio?).

Questa forse è una delle ipotesi interpretative di una regia che, sovraccarica di simboli ed azioni risulta difficilmente intelligibile. Sono infatti molte le idee che si affastellano di cui si faticano a comprendere i punti di collegamento: una grande sfera che si innalza sopra il palcoscenico nella scena del tempio e nel finale (l’Immenso Ftah?); mummie che vengono sbendate nelle stanze di Amneris durante il suo colloquio con Aida (i soldati caduti in guerra?); i figuranti che rappresentano il popolo etiope evocato da Amonasro nel terzo atto che nel quarto diventano una sorta di estensione del volere dei sacerdoti circondando Radames nella scena del processo; per arrivare alla scena finale in cui la tomba di Radames si illumina di bianco in un'ideale ascesa all'empireo di matrice dantesca cui partecipano coro e figuranti. Risulta difficile quindi districarsi nel sovraccarico di simboli e di movimenti di massa su di un palcoscenico che, apparentemente dominato dall'horror vacui, risulta spesso ingolfato di figuranti che tendono a schiacciare i protagonisti o a distrarre l'attenzione.

Per quanto riguarda l’aspetto scenografico, a parte la sopracitata mano meccanica che incombe sullo sfondo quale simbolo di oppressione, l'unico elemento è costituito da giochi di luce realizzati con laser che, eccezion fatta per qualche momento particolarmente suggestivo nel terzo e quarto atto, risultano ripetitivi e spesso privi di una reale funzione drammaturgica.
Anonimi e non particolarmente originali i costumi, ispirati ad un futuro tribale; meccanici i movimenti mimici che sostituiscono le coreografie spesso utilizzando i danzatori come tessere di un domino che cadono e si rialzano.

Più interessante il versante musicale, ancora una volta dominato da Anna Netrebko che, ad onta di un lavoro registico sui cantanti decisamente interlocutorio, ha dato vita ad un’Aida di grande presenza scenica e vocalmente eccellente. La cura nel fraseggio ed i suoi filati hanno costituito una vera e propria lezione di canto e la magnifica interpretazione dell'aria “O cieli azzurri” è valsa l’intera serata. Al suo fianco Yusif Eyvazov nel ruolo di Radames si è confermato cantante attento e raffinato fraseggiatore, riuscendo a piegare alle esigenze della musica un timbro nasale non tra i più felici. Olesya Petrova è stata un’Amneris dai tratti eccessivamente veristi e dalla linea di canto non impeccabile ma protagonista di un intenso quarto atto, mentre Roman Burdenko è stato un Amonasro vocalmente solido ma spesso generico nell'interpretazione. Ottimo il Ramfis di Michele Pertusi che spiccava per la bellezza del timbro e l'eleganza dell'emissione, come convincente è stato anche il Re di Simon Lim. Rimarchevoli le prove del Messaggero (Riccardo Rados) e della sacerdotessa (Francesca Maionchi) come anche quella del coro diretto da Roberto Gabbiani.

Marco Armiliato, come sempre solido e professionale concertatore, è stato protagonista di una serata in crescendo. Se infatti i primi due atti sono stati caratterizzati da tempi eccessivamente lenti ed una direzione priva di mordente nel terzo e quarto il direttore ha dato l'impressione di trovare i giusti colori, imprimendo alla partitura una caratterizzazione più efficace ed incisiva.
Calorosa la risposta del pubblico che, oltre a ripetuti applausi a scena aperta, ha tributato al termine un consenso unanime a tutti gli interpreti