Recensioni - Opera

Verona: L’Ernani di Poda tra classicismo e innovazione

Regia cerebrale ma non priva di suggestioni visive per l’opera giovanile verdiana. Apprezzabile l’aspetto musicale

Ernani, quinta opera di Giuseppe Verdi e prima su libretto di Francesco Maria Piave, è tratta dall’omonimo dramma di Victor Hugo che debuttò a Parigi nel febbraio del 1830, segnando una tappa importante nel passaggio tra classicismo e romanticismo. Il testo ed alcune scelte a livello recitativo proposte dall’autore vennero accolte con entusiasmo da quella parte di pubblico che guardava alla nuova poetica romantica, provocando lo scontro con i classicisti più reazionari. Alla prima scoppiò quindi la cosiddetta Bataille d’Hernani, ovvero una disputa tra le varie fazioni che proseguì anche nel corso delle repliche; ed è proprio da questo episodio che il regista Stefano Poda ha tratto ispirazione per il nuovo allestimento dell’opera che ha debuttato al Teatro Filarmonico di Verona all’interno della stagione invernale della Fondazione Arena.

Già in apertura di sipario vediamo campeggiare al centro del fondale come dichiarazione di intenti la scritta “La bataille d’Hernani” mentre alcuni figuranti depositano dei libri per terra –presumibilmente copie del dramma di Hugo- che verranno di volta in volta sfogliati dai vari interpreti fino all’ultima scena quando Ernani, per uccidersi, anziché accoltellarsi strapperà una pagina dal volume che stava leggendo.
L’intento di Poda è quello di rappresentare “la sintesi degli opposti, la tensione fra gli estremi che si appiana solo grazie al mistero dell’arte”, che dovrebbe avere lo scopo di smussare i contrasti, in netta antitesi rispetto a quanto occorso nellla succitata bataille. Tuttavia, come spesso accade nelle sue regie, lo spettacolo è disseminato da azioni simboliche e coreografiche che sul momento possono anche suscitare qualcosa ma che difficilmente si riescono a collegare tra loro all’interno di una drammaturgia organica. Anche in questo caso vi è la solita importante presenza di figuranti che si prodigano in abbracci, reciproci sollevamenti, corsettine, spostamenti per riempire lo spazio, antagonismi tra gruppi. In sostanza tutti quegli esercizi che chiunque abbia frequentato un corso di espressività corporea propedeutico all’attività teatrale ha eseguito centinaia di volte e che ormai costituiscono la cifra stilistica del regista trentino.

Tra i momenti che rimangono più impressi ci sono l’aria d’ingresso di Elvira, che si presenta avvolta da lacci, a significare probabilmente i vincoli a cui è sottoposta, oppure la cabaletta di Silva “Infin che un brando vindice” in cui l'interprete, armato di pistola, fa una mattanza di tutti gli scudieri presenti in scena. Poco importa che fossero le stesse persone che lui poco prima aveva chiamato per scacciare gli intrusi Carlo ed Ernani. Anche il finale in cui Ernani scompare all’interno di un cubo semiriflettente calato dall’alto nel quale fino a poco prima si trovava Carlo Magno (siamo nella tomba dell’imperatore ad Acquisgrana), pur essendo più adatto al Don Carlo non manca di suggestione. Per il resto l’impostazione ed il lavoro sui cantanti si svolge in modo sostanzialmente tradizionale.

Tuttavia se il Poda regista convince in minima parte, il Poda scenografo e lighting designer ottiene un risultato decisamente apprezzabile. La scenografia si basa su una quadratura in plexiglass trasparente dietro alla quale si intravedono rovine di statue classiche –ovvero la tradizione-  che a partire dal secondo atto viene ricoperta da pareti che ricordano i circuiti stampati dei computer –la modernità- che, illuminandosi, creano effetti molto suggestivi e che nell’ultimo atto lasciano spazio al cubo-tomba di cui sopra. Pertanto lo spettatore che scegliesse di non concentrarsi sull’interpretazione, ignorandone i cerebralismi, e che si limitasse alla rappresentazione visiva ed estetizzante della partitura, ne uscirebbe appagato.

La resa musicale è nel complesso buona salvo qualche discontinuità, soprattutto nel primo atto quando i cantanti devono esibirsi dal fondo del palcoscenico, scelta che ne penalizza la resa vocale e gli equilibri con l’orchestra.
Alla testa dei complessi areniani Paolo Arrivabeni è artefice di un’interpretazione corretta ma non sempre incisiva. Se il primo atto, per i motivi appena accennati, risulta abbastanza anonimo, a partire dal secondo l’orchestra sembra acquisire più mordente soprattutto nei passaggi più concitati, anche se “Si ridesti il leon di Castiglia” appare un po’ sottotono, mentre nei momenti lirici non sempre dà l’impressione di trovare il giusto trasporto.

Il cast è dominato dal Carlo di Amartuvshin Enkhbat. Il baritono asiatico sfoggia un timbro duttile e morbidissimo, un fraseggio da manuale e grande attenzione all’interpretazione. Il suo è un Carlo autorevole ma allo stesso tempo umano ed appassionato, che si contrappone al fiero ed altero Silva interpretato con grande dovizia di mezzi vocali da Vitalij Kowaljow. Antonio Poli è un Ernani più romantico che eroico, che spicca per il timbro corposo e ricco di sfumature, ad onta di qualche difficoltà nell’acuto, soprattutto nel primo atto quando la regia lo costringe a cantare in fondo al palcoscenico, circostanza nella quale si trova anche Olga Maslova, Elvira volitiva, dalla solida linea di canto. Buone le prove di Elisabetta Zizzo (Giovanna), Saverio Fiore (Don Riccardo), Gabriele Sagona (Jago) e del coro diretto da Roberto Gabbiani.

Al termine il pubblico che riempiva il Teatro Filarmonico ha tributato un consenso unanime per tutti i responsabili dell’aspetto musicale, in particolare per Enkhbat, mentre gli applausi rivolti ai responsabili della parte visiva sono stati in buona parte coperti da sonori dissensi, a giudizio di chi scrive eccessivi ed ingenerosi.