Recensioni - Opera

Verona: Le Villi tra neogotico e Belle Époque

Sfarzosa ma molto convenzionale la messinscena del titolo d’esordio di Puccini al Teatro Filarmonico. Apprezzabile l’aspetto musicale.

Da alcune stagioni la programmazione del Teatro Filarmonico si sta, finalmente, staccando dal grande repertorio, che trova il suo palcoscenico d’elezione nella stagione estiva areniana, per dedicarsi alla proposta di titoli più desueti ma non per questo meno interessanti. Dopo la Rondine dello scorso anno la riscoperta delle opere meno eseguite di Puccini ha toccato anche il titolo d’esordio del compositore lucchese, ovvero quel Le Villi che, pur non facendogli vincere il concorso per opere nuove bandito da Sonzogno, gli valse l’attenzione di Giulio Ricordi che diventerà il suo editore.

La breve partitura, che, pur denotando uno stile ancora acerbo, lascia già intravedere la spontaneità di Puccini nel creare efficaci soluzioni melodiche, si ispira ad una leggenda mitteleuropea -la stessa alla base del balletto Giselle di Adolphe Adam- che racconta di spiriti femminili delle foreste che costringono gli amanti infedeli a danzare con loro fino alla morte. Arie, duetti e scene corali sono intervallate da brani sinfonici e musica da balletto, soprattutto nella seconda parte quando le Villi si scatenano nella danza di morte. Una scelta che il debuttante Puccini compie in ossequio ai dettami wagneriani del fluire continuo della musica, che allora esercitavano una grande influenza sui giovani musicisti.

Lo spettacolo andato in scena al Filarmonico per la regia di Pier Francesco Maestrini, proveniente dal Teatro Regio di Torino, ambienta la vicenda nell’epoca in cui l’opera è stata composta, ovvero alla fine del XIX secolo. La scenografia di Juan Guillermo Nova, che si avvale anche di videoproiezioni, ed i costumi di Luca Dall’Alpi illustrano la vicenda in modo puntuale e didascalico senza imprimere un particolare taglio interpretativo: convenzionali le azioni dei protagonisti; decorative e innocue le controscene del coro. Anche i movimenti mimici di Nicola Cosentino, che sostituivano le coreografie dato che in locandina non è menzionato alcun corpo di ballo, sono quanto mai prevedibili. Nonostante gli accadimenti in scena diano l’impressione di procedere più per inerzia che per un particolare disegno, l’occhio ne esce comunque appagato sia nelle sfarzose scene “borghesi” sia in quelle ambientate nella foresta che si rifanno al romanticismo di derivazione ossianica.
Discutibile la scelta di inframmezzare i due atti da un intervallo, anche se l’Italia è il paese in cui frequentemente si contravviene alle intenzioni degli autori e si infarciscono di intervalli le opere più improbabili (cito, per esperienza diretta: Olandese volante, Pagliacci, Ur-Boris). Discutibile anche la sostituzione dei testi affidati alla voce narrante -qui, peraltro, solo registrata- con delle didascalie sbrigative che stridono con il resto del libretto.

Il versante musicale è sostenuto dalla solida concertazione di Alessandro Cadario, che, grazie ad un fraseggio articolato e ad una grande attenzione alle dinamiche tende ad esaltare la componente sinfonica della partitura, non dosandone a volte i volumi a discapito delle voci.
Nel ruolo di Anna il soprano Sara Cortolezzis sfoggia un timbro rigoglioso e una solida linea di canto nonostante tra i solisti risulti essere la più penalizzata nei momenti in cui l’orchestra eccede. Al suo fianco Galeano Salas è un Roberto spavaldo, dal timbro morbido e luminoso, mentre Gëzim Myshketa è un Guglielmo autorevole nonostante qualche screziatura nel registro acuto.
Buona la prova del coro diretto da Roberto Gabbiani. Calorosa al termine la risposta del pubblico che riempiva il teatro per circa due terzi.