Recensioni - Opera

Vicenza: Un incubo vintage

Ambientazione ottocentesca per un riuscito The Turn of the Screw al Teatro Olimpico

The Turn of the Screw di Henry James, nonostante sia stato scritto alla fine del XIX secolo è un racconto di straordinaria modernità, che guarda al ‘900 ed anche oltre, superando gli schemi del romanzo gotico e delle storie di fantasmi in voga all’epoca. La vera fonte di inquietudine di questo testo risiede infatti non nell’orrore manifesto, ma nella totale ambiguità di cui è permeato. Non si capisce infatti se i fantasmi di Peter Quint e Mrs. Jessel siano reali o se siano delle proiezioni della mente dell’istitutrice e, soprattutto quale sia -sempre che vi sia- il loro legame con i bambini. La governante fa infatti riferimento a qualcosa di malvagio accaduto in passato, quando a dirigere la casa c’erano ancora Quint e Jessel in carne ed ossa, ma di che cosa si tratti non è dato sapere. Oltretutto il finale non chiarisce assolutamente nulla, lasciando aperti tutti gli interrogativi e fomentando quell’ambiguità irrisolta che costituisce il cardine dell’intero racconto.
Affascinato da un testo di tale modernità, Benjamin Britten ne trasse uno dei massimi capolavori del teatro musicale del ‘900 che debuttò nel 1954 al Teatro La Fenice di Venezia e che in occasione del Vicenza Opera Festival 2022 è stato rappresentato sul palcoscenico del Teatro Olimpico grazie alla collaborazione tra la Società del Quartetto di Vicenza e l’Iván Fischer Opera Company di Budapest.

La regia firmata dallo stesso Fischer e da Marco Gandini sceglie di mantenere la vicenda nel periodo in cui fu scritta la novella, affidando allo scenografo Andrea Tocchio il compito di ricostruire un ambiente che rappresenti fedelmente un interno inglese di fine ‘800 e lo stesso vale per i costumi di Anna Biagiotti. Le azioni si dipanano in modo lineare, potremmo dire prevedibile, vista la fedeltà al testo originale, al punto che anche per l’apparizione dei fantasmi si ricorre al trucco ottocentesco del Fantasma di Pepper basato sulla riflessione di immagini su grandi lastre di vetro. Un allestimento cui vanno riconosciute grandi cura e coerenza, che però alla fine non provoca mai inquietudine, limitandosi a raccontare eventi cristallizzati nel passato e non cercando quegli spunti che possano “creare maggior disturbo” al pubblico. Inoltre, trattandosi di una produzione nata per il Müpa di Budapest e qui riallestita, -non senza qualche inconveniente soprattutto per gli spettatori nei posti più laterali, privati di alcuni effetti- è mancato l’utilizzo dello spazio scenico dell’Olimpico, qui ridotto a mero contenitore.

Assolutamente straordinaria invece la componente musicale che ha visto Iván Fischer alla testa di 13 elementi della sua Budapest Festival Orchestra in stato di grazia. Equilibri perfetti e grande attenzione alle dinamiche sono stati alla base di un’esecuzione di grande efficacia, cui forse è mancata quella tensione per toccare appieno le corde del dramma britteniano.

Pressoché perfetto il cast, sia vocalmente che scenicamente, dall’intensa e incisiva Istitutrice di Mia Person al viscido ed ambiguo Quint di Andrew Staples, impegnato anche nel prologo, all’irrequieta Jessel di Allison Cook e all’accorata Mrs Grose di Laura Aikin. Un plauso particolare va rivolto ai giovanissimi Ben Fletcher (Miles) e Luci Barlow (Flora), rispettivamente di 12 e 11 anni, pienamente convincenti sia nel canto che nella recitazione.
Al termine grande successo di pubblico da parte di un Teatro Olimpico esaurito.