Recensioni - Cultura e musica

Intervista a Carlo Alessandro Landini - seconda parte

Una stimolante conversazione per meglio comprendere "L'orecchio di Proteo", la sua ultima fatica letteraria

La prima parte dell'intervista si può trovare a questo link

Qual è, quindi, il ruolo della memoria nella percezione e nella conservazione di una matrice di ascolto? Nella costruzione di una categoria, di un riferimento?

      Esistono diversi tipi di memoria, praticamente infiniti. Esiste la memoria dichiarativa, come la chiamò Larry Squire, e quella implicita, inaccessibile alla coscienza. V’è quella a lungo, a medio, a breve termine. V’è la memoria protocollare, che ci permette di guidare mentre conversiamo al cellulare in attesa di esser fermati e multati. V’è la memoria cosiddetta involontaria, di cui Proust enuncia tutta l’importanza in Du côté de chez Swann, un tipo particolare di memoria associativa che lentamente affiora e sale in noi col chiarirsi di un ricordo, di un affetto, di uno spunto occasionale. Poi vi sono tutte le derive cosiddette subliminali della memoria, strumenti che agiscono sottotraccia, al riparo delle codificazioni operate dalla corteccia prefrontale, pur mantenendo inalterata la carica emotiva profonda. Lei mi domanda quale sia il ruolo della memoria. Non me lo ricordo, potrei risponderle sogghignando. Seriamente, penso che ogni tipo di ascolto implichi l’attivazione e l’utilizzo di un certo tipo di memoria (che non è un comparto isolato, ovviamente, ma che agisce in base a sfumature, ad approssimazioni, a meccanismi associativi, permutativi – da qui il curioso fenomeno del lapsus –, combinatorî). L’ascolto esperto (kritisches Gehör) teorizzato da Adorno è, credo, il peggiore, quello che necessita di una memoria buona tutt’al più per i quiz a premi televisivi. Ricordo un cretino il quale, sfoggiando una memoria tanto enciclopedica quanto inutile, era in grado di compitare a menadito i cataloghi mozartiano e scarlattiano messi insieme, milleduecento composizioni in tutto (questo tale, che si beava della festosa approvazione di amici e parenti, restava cionondimeno un cretino). Se la memoria intervenga, Lei mi chiede, a costruire categorie e riferimenti. Certo che sì, perché vivere oportet, la memoria rappresenta uno strumento filogenetico posto al servizio della vita e della sopravvivenza, è sempre la memoria a fornirci delle mappe cognitive efficaci le quali ci consentono sia di imboccare, all’occorrenza, il sentiero che ci condurrà alla meta, sia di fornirci la soluzione inaspettata a un dilemma (soluzione la quale ci farà esclamare eureka! mentre usciamo nudi – ossia dimentichi di esserlo – dalla tinozza colma d’acqua). Decretare se la memoria serva o meno ad apprezzare i giochetti numerologici di Berg è impossibile. Sfido chiunque a riconoscere, senza una dritta, senza un suggerimento qualsiasi, il grande, sontuoso palindromo contenuto nel secondo tempo, l’Adagio, del suo Kammerkonzert.

 

Uno dei capitoli più avvincenti di una lettura che è tanto abissale quanto appassionante, scaldata al fuoco delle sue infinite intersecazioni, è quello dedicato alle “frizioni cognitive” rispetto alla ricerca di una regola che, già dichiaratamente nel titolo, viene detta “vana”. In questo passaggio, l’analisi degli attacchi di pagine che vanno da due Sinfonie di Beethoven al primo Momento Musicale op. 94 di Schubert è illuminante per comprendere, quasi in un piano-sequenza, l’evolversi del discorso musicale rispetto all’attesa ed all’intesa con l’ascoltatore.

 

      Lei apre un capitolo che si presterebbe a numerose digressioni, nel quale sarebbero gli interrogativi, i dilemmi insoluti, forse irrisolvibili, ad averla vinta sulle poche certezze in nostro possesso. Impossibile rispondere senza entrare in una miriade di dettagli e di esempi. Devo, per forza di cose, semplificare (e verrò per questo criticato). Una parte degli studiosi ritiene che la musica viva e prosperi in virtù delle attese in essa contenute, ossia di quanto noi ci aspettiamo che accada, attimo dopo attimo. Tra questi è David Huron (col suo saggio del 2006 intitolato Sweet anticipation: Music and the psychology of expectation). La gioia dell’appagamento coronerà, in base a questo modello, l’attesa. Pensiamo alla classica cadenza perfetta (dominante-tonica) la quale sancisce una chiusura, fa cioè calare il sipario sull’ultima pagina di un racconto in suoni (così come fanno la pennellata conclusiva di un pittore, la λύσις o “scioglimento” della tragedia attica, l’epilogo di un romanzo). Un’altra fetta cospicua di studiosi ritiene che la musica si nutra, al contrario, delle attese non appagate, delle promesse non mantenute. Di quanto non accade a dispetto delle (o accade diversamente dalle) nostre più rosee previsioni (e di quanto il compositore, se è malizioso, se è furbetto, ci fa balenare). Tra questi è Leonard B. Meyer (col suo memorabile Music, the Arts, and Ideas, che risale al 1967). La gioia della delusione (ossimoro, ma non saprei come altrimenti definire il processo) subentrerà alla fatica mentale, talora anche fisica, dell’attesa. Pensiamo, per questo, alla classica cadenza sospesa (tonica-dominante) la quale apre un discorso, sancisce un incipit ma designa anche la mancanza di una conclusione attesa (Wagner, l’ouverture del Tristano). In un caso si apprezzano le rose in boccio, nell’altro ci si accoda alla poetica di Gozzano per rimembrare e lodare e rimpiangere le rose sfiorite (quelle che non siamo stati pronti a cogliere per tempo). Per rispondere alla Sua domanda, nel primo dei suoi Musikalische Momente op. 94, Schubert ci regala la trasposizione in termini musicali di quanto in psichiatria va sotto il nome di allucinazione, ossia di percezione senza oggetto. Non so perché mi vengano in mente, a questo punto della nostra chiacchierata, le prodigiose stampe di M.C. Escher. Non so perché mi balenino nel cervello le “figure impossibili” escogitate da uno stralunato e bizzoso artista (che si definiva un matematico) la cui modernità è assurta a esempio inarrivabile di incanto dell’occhio, di fascinum dei sensi pronti a farsi irretire e piacevolmente ingannare (quasi sempre con la complicità dell’osservatore, ne sia egli consapevole o meno). Se, parlando di “frizioni cognitive”, il nostro pensiero corre soprattutto alle promesse non mantenute degli uomini politici, subito dopo esso va alle tassellature del piano e dello spazio reinventate da Escher, alle sue geometrie interconnesse che imprevedibilmente mutano le loro forme in un arco tempo esso pure cangiante e sempre mutevole. Basti pensare alle attese regolarmente “tradite” di chi, nelle mezzetinte di Escher, nelle sue splendide litografie, dapprima crede di (o si aspetta di) riconoscere un volto, un oggetto, un volo di anatre, per poi dovere ammettere di trovarsi faccia a faccia con tutt’altro. Rammentare il detto più singolare tra quelli attribuiti a Eraclito non può che giovare ai musicisti e a tutti coloro i quali, da seri professionisti o “solo” da appassionati, da angolature diverse e diversamente sfaccettate, si occupano di musica: ἐὰν μὴ ἔλπηται ἀνέλπιστον, οὐκ ἐξευρήσει (“non approderà a nulla chi non si aspetta l’inaspettato”).

 

Proseguendo l’analisi, interessante è la sua riflessione sull’arte di Brahms, tesa a “procrastinare il piacere” e le reazioni del cervello a questo impianto sintattico, comparato a quello, ben più compulsivo di altri compositori. Una musica ad ingranaggi lenti, che turba e che non soddisfa, che posticipa la gratificazione o che, per dirla con Kundera, “prolunga lo stato di eccitazione”.

 

      Ha già sintetizzato tutto Lei. In modo perfetto, che io non avrei saputo dire con maggiore esattezza e concisione, ma anche giustezza. Sarebbe il caso, ma non in questa sede, di esplorare il segreto, qualche volta inconfessabile, o non facilmente confessabile, legame tra eros e musica. Eros inteso come tipo o comportamento sessuale, il che non può prescindere, a sua volta, da considerazioni (oggi non molto ben viste, oggi non sempre opportune) tra identità sessuale, potenza coeundi, schema corporeo, schema psichico, eventuali anomalie del sistema psiconeuroendocrino. Prenda tre autori dal profilo formale e temporale per certi versi analoghi. Schubert, con la sua “divina lunghezza” (la himmlische Länge), Brahms, con le sue lunghezze molto poco divine, che sanno di patate lesse e cavoli fritti, Wagner con le 4 ore del Parsifal e le 5 della Götterdämmerung. Se l’esito macroformale è simile per ciò che riguarda il tempo, in tutti e tre i casi dando luogo a delle durate spropositate e monumentali, sono certamente i presupposti a essere diversi, e lo sono anche taluni dettagli della diegesi, o conduzione ‘romanzesca’ (quello che oggi si chiama storytelling), e del trattamento fatto subire alla forma (e perciò anche alla percezione del tempo). Schubert lavora sul concetto di tema e variazione, egli si muove a piedi (avendo ereditato dallo Sturm und Drang l’idea della Wanderung, del peregrinare con o senza meta). Brahms è un popolano arricchito, uno la cui prosopopea ricorda quello di taluni finti aristocratici del Goldoni. Questo esemplare anseatico tutto di un pezzo è un nuovo ricco e si sposta esclusivamente in carrozza. Il tempo di Brahms è interminabile, può cioè proseguire all’infinito ma lo fa, è essenziale tenerlo presente, senza che mai, nemmeno per un istante, si accenda in lui la benché minima tensione, la benché minima scintilla del desiderio. Il tempo di Brahms è vuoto e privo di contenuti, privo di un senso, di una direzione, di una meta così come lo è quella del paziente depresso. Il caso di Wagner è buffo. L’autore del Parsifal si muove pur restando fermo, on the spot. Sotto i suoi piedi il tempo scorre come un invisibile tapis roulant, il nastro trasportatore degli aeroporti. Don Riccardo non gira a piedi come l’accattone Schubert e nemmeno si fa condurre a destinazione in carrozza come il barbuto e altezzoso Brahms. A Wagner manca – letteralmente – la terra sotto i piedi. Il risultato paradossale è che Wagner ci regala l’illusione dell’ondeggiamento tellurico continuo, spesso spasmodico, mentre invece noi siamo assolutamente fermi con lui e non ci muoviamo di un millimetro. Vale per Wagner quanto Parsifal confessa al fido Gurnemanz: “Cammino appena, eppur mi sembra già d’esser lontano” (“Ich schreite kaum – doch wähn‘ ich mich schon weit”). Il tempo wagneriano ci permette di tutto cambiare perché tutto rimanga com’è (una perla di saggezza che Giuseppe Tomasi pone in bocca al suo rassegnato eroe, Fabrizio Corbera, principe di Salina). E qui, finalmente, mi ricollego al senso della Sua domanda, nella quale Lei usa termini quali gratificazione ed eccitazione, dal connotato indubbiamente, inutile nascondersi dietro un dito, sessuale. Le tre modalità temporali che si sono viste, pur macroscopicamente non troppo dissimili fra loro (ma in realtà molto diverse), possono ricondursi a tre stili di attaccamento e di gestione del desiderio profondamente diverse. Schubert, lo specialista della variazione su tema, è un omosessuale occulto, un gay caché, forse addirittura, azzarda Sergio Sablich nel saggio L’altro Schubert, un pedofilo della peggior risma, uno che, in barba alla Vienna codina e cattolica e giuseppinista, era al centro di una rete di festini e orge tra pederasti, ciò che la cronaca oggi bollerebbe col nomignolo infamante di “balletti verdi”. Brahms era impotente così come lo era Schumann (che aveva posto il primo a custode del focolare domestico e della moglie Clara, frigida e sadica): non poté che sortirne se non una personalità chiusa al mondo e agli altri e, con essa, una gestione del tempo musicale tutta sui generis, lontana da qualunque capacità di emozionarsi e di emozionare. Brahms è un vecchio atrabiliare, un odiatore a sua volta odiato e temuto da tutti, non solo dal povero Hugo Wolf. Egli è un misantropo che, sulla scorta di un vecchio album di dagherrotipie sbiadite e ingiallite, rievoca i bei tempi andati. Il mondo, la musica, il tempo musicale sono in lui racchiusi nel ricordo, nella glorificazione di Bach e del contrappunto (che fra le sue manacce, grassocce e untuose, diviene un compitino di scuola, cervellotico e di pura maniera, sciocco e insulso ma, quel che è peggio, privo di amore). Quanto a Wagner, egli è bisessuale e giace peccaminosamente col suo mecenate Ludwig II di Wittelsbach per accaparrarsene i favori. Le sue opere, come ha giustamente osservato Jean-Jacques Nattiez, sono colme di personaggi androgini. Nel Parsifal compaiono segni e simboli inequivocabilmente riconducibili al culto pagano del demone Baphomet, né uomo, né donna, ma entrambe le cose. Il Tristan ci offre il connubio romantico di amore e morte, tema conduttore dei massimi miti greci, poi ripreso da Shakespeare (fra tutti in Romeo and Juliet), infine illustrato e discusso da Freud. Questa sinergia tra principio vitalistico e mortifero, tra passione vitale e necrofila, innerva e talora infiamma la concezione wagneriana del tempo, contraddittoria così come lo è l’archetipo dell’androgino, dell’eunuco, del Rebis alchemico. La tragedia più diffusa nel nostro tempo è quella del desiderio insoddisfatto, dell’eros sterile, del desiderio non fecondato spiritualmente né gratificato, del desiderio che sopravvive al sesso, sesso non più agito, al massimo sognato o, addirittura negato; di segno opposto è il sesso che, staccato dal desiderio, sopravvive a quest’ultimo come semplice gesto propiziatorio, come sequenza di operazioni meccaniche, lontane da qualunque finalismo (vuoi generativo, vuoi solo edonico). Il tempo senza piacere, senza amore, il tempo interminabile, inconcluso: questa marca tragica accomuna tra loro, da angolazioni opposte, la produzione di Schubert, Brahms, Wagner.

 

Infine, attingendo all’inesauribile miniera di riferimenti che il Suo libro indaga, prezioso è il cammeo schumanniano: l’ultima produzione, tra affissi ed extrasistoli ed un occhieggiare alla sindrome di Parkinson…

 

      Credo di avere già, almeno in parte, risposto alla Sua domanda parlando della differenza fra (o non sovrapponibilità di) ritmo e metro a proposito di Chopin e delle sue peculiarità ritmiche. Credo che ogni compositore coltivi una propria idea personale, quasi un’immagine interiore, di tempo musicale. Quella di Beethoven si fonda su stacchi di frase e di agogica tanto repentini quanto collerici, dettati da una personalità borderline (credo che lui e Brahms siano stati in assoluto i due compositori più antipatici e intrattabili fra tutti: nessuno vorrebbe avere l’uno o l’altro per amico e confidente). Quella di Schumann è una ricognizione parossistica, esasperata, maniacale del moderno tempo accelerato (lo stesso della slapstick comedy di Chaplin e Lloyd, lo stesso dei documentari naturalistici in time-lapse). Se non anacronistica in sé (con la Restaurazione vedono la luce, in Gran Bretagna e nell’industria manufatturiera francese, le prime fabbriche a catena di montaggio: la fretta diviene un tratto tipico e irrinunciabile del progresso), però assolutamente malata. Il passo di Schumann parte dal trotto, rompe quindi in un’andatura intermedia, saltata e basculante, sfocia infine in un galoppo allungato e incontenibile, quello del cavallo imbizzarrito che aspetta solo di essere abbattuto dalla schioppettata di un cecchino. La zoppia è solo un pattern caratteristico, tale da potersi diagnosticare in numerose patologie neurologiche anche gravi, come il Parkinson da Lei citato, ma è il tipo pervicace, reiterato, stereotipato di questa zoppia a fare di quest’ultima una marca psichiatrica, e non solo o semplicemente neurologica. Il tempo di Schumann è quello di taluni schizofrenici non trattati, i quali replicano compulsivamente uno stesso gesto, uno stesso tic comportamentale, e lo fanno sinché non crollano a terra esausti o sinché non interviene il personale paramedico a occuparsi di loro (per Schumann e per quelli come lui il presidio oggidì più adeguato sarebbe una camicia di forza, abbinata a un ciclo di farmaci antipsicotici come la clorpromazina). Il tempo brahmsiano è quello di un paranoico megalomane che, dal suo ideale ponte di comando, governa il proprio vascello fantasma immaginandosi proiettato alla conquista e all’esplorazione di continenti ignoti. Egli può farlo con calma, complice un bicchiere di Heuriger, rosso torbido e dal retrogusto leggermente amarognolo, ben sapendo che nessuno lo ha preceduto e che nessuno ne seguirà le orme. Brahms è completamente solo, la sua è l’andatura sbilenca e un po’ goffa di un vecchio orso grizzly che si gode – felice, imperturbabile nella sua tronfia, alquanto demente sicumera – il possesso pieno ed esclusivo di un’ampia porzione di foresta e di fiume (salmoni compresi). L’ebefrenia paranoide possiede questo vantaggio sulle altre patologie consimili: il paziente si crea il proprio mondo, governato da leggi e modalità proprie di funzionamento. Il mondo di Brahms è, come quello dello sgangherato film Tomorrowland, un mondo ricco di salti temporali, privo però del “senso” del tempo. Manca in Brahms una struttura temporale degna di questo nome. Non vi è nella sua musica un prima o un dopo, v’è piuttosto l’ombra sbiadita di un grigio, eterno, inossidabile presente.

 

Un’opera monumentale, omnicomprensiva, a nostro parere dichiaratamente aperta a nuove possibili implicazioni, animata da una concezione rinascimentale del sapere. Perché in un tempo come il nostro, essa può diventare anche un’opera “necessaria”? Qual è la chiave che, a Suo avviso, può consentire al lettore un cambio di prospettiva nei confronti della musica, del suo ruolo e della sua fruizione?

 

      Abbiamo già parlato dell’ingombrante aggettivo “necessario”. Lo abbiamo fatto all’inizio di questa chiacchierata. Quanto alla parte rimanente della Sua domanda, si tratta di accogliere i due attributi della monumentalità (spettacolarità e accessibilità ne sono i due corollari, le due marche tipiche e inalienabili) e dell’interpretazione allargata, in taluni casi interminabile, fra i must – fra le priorità ineludibili e inaggirabili – del pensiero contemporaneo. Ogni opera d’arte racchiude, e squaderna per chi le si accosta, uno spicchio di mondo, una porzione di esistenza. Quanto più ampia sarà la parte di mondo che l’opera d’arte rielabora e rende disponibile alla platea dei lettori o ascoltatori, a tanto più buon diritto la si potrà definire un’opera d’arte ‘universale’ (dal più modesto mondo dei mortali si trascende, per essa, alle “ombre più grandi d’un più grande mondo”). Il termine ultimo di questo viaggio è la restituzione e riproduzione della complessità, virtualmente infinita, che forma l’ordito di questo universo (“tanto più perfetto quanto più complesso – sentenziò il gesuita Pierre Teilhard de Chardin – e, viceversa, tanto più complesso quanto più perfetto”). La teoria dell’informazione, formalizzata dapprima da Claude Elwood Shannon, da Abraham Moles estesa in seguito all’arte, spiega la complessità con un insieme fittamente integrato di elementi computabili di un repertorio, elementi identificabili attraverso scelte binarie successive (ciascuna delle quali avrà sempre il 50 per cento di probabilità di verificarsi). L’opera d’arte universale è quella che, per adoperare un neologismo di Eco, è in grado di prefigurare il cosiddetto “campo semantico globale”, ossia la matrice di una vasta, onnicomprensiva, pressoché illimitata gamma di possibilità. Penso con stupore alla volta e alla parete di fondo della Cappella Sistina, affrescate da Michelangelo. Quest’opus magnum è per me l’enciclopedia vivente. I Musei Vaticani sono ai miei occhi, regolarmente attoniti di fronte a tanta bellezza raccolta e gelosamente custodita in un solo luogo, la dimostrazione forse ineguagliata di un sapere universale che assurge al ruolo di monumento e che, in quanto tale, si rende accessibile a tutti, o almeno a una gran parte tra noi. Il mito dell’enciclopedia è anzitutto ellenistico. La biblioteca di Alessandria d’Egitto era stata la più vasta al mondo, ma gli ottomani iconoclasti la ridussero a un mucchio di cenere (ciò Le ricorda qualcosa?). L’enciclopedismo rivive e riprende quota nel Rinascimento con la Bibliotheca universalis dell’erudito svizzero Conrad Gessner ma anche, e soprattutto, col cosiddetto teatro della memoria del veneziano Giulio Camillo Delminio, il primo caso in assoluto di una mind map che, basandosi sulla ricombinazione tra loro di concetti e immagini, regala ai primi, ai concetti, l’evidenza topologico-spaziale connaturata alle seconde, le immagini. Alla metà del Seicento appartiene l’opera del dotto gesuita Athanasius Kircher, autore della straordinaria Musurgia universalis. Dal Settecento (il secolo per eccellenza degli Enciclopedisti francesi) a oggi non v’è studioso che, in qualche modo, in qualche misura, non si sia sforzato di restituire al suo lettore un’immagine quanto più completa e pervasiva di una realtà che diviene ogni giorno più complessa, una realtà che, se al tempo di Diderot e d’Holbach si poteva ancora tentare di compendiare e descrivere in forme più o meno stilizzate, oggidì sfugge a qualunque tentativo di classificazione. Se l’arte è lo specchio veritiero del mondo e della vita, un mondo e una vita fattisi liquidi con l’emergenza e venuta in auge della modernità, giusta la formula coniata da Zygmunt Bauman, destino dell’arte sarà quello di liquefarsi essa pure. Ma tutto non è come sembra. L’esito paradossale di una ricerca e riproduzione del geniale è purtroppo, molto spesso, il suo esatto contrario: il banale, ciò che Georg Simmel e Walter Benjamin chiamano das Banausische (traducibile con termini quali: volgare, plebeo, sciocco, ingenuo). Gli artifizi della modernità richiamano, quasi in automatico, disvalori quali la malattia (nello Zauberberg manniano se ne trova un campionario da spavento) e l’innocenza di ritorno (irrisa e lodata, al tempo stesso, da Voltaire nel Candide, poi da Flaubert in Bouvard et Pécuchet). Se oggidì prevale la frammentazione del sapere, ciò è anche dovuto al cumulo davvero monumentale, gigantesco, di nozioni stratificate e interlacciate tra loro, di saperi parziali e specialistici, con cui l’uomo contemporaneo è chiamato (e condannato) a confrontarsi. L’indebolimento di una percezione globale, quella di un sapere condiviso e partecipato, conduce fatalmente all’indebolimento del senso della responsabilità e alla finis historiae, come hanno messo in luce le ricerche di Edgar Morin da un lato, dello storico Francis Fukuyama dall’altro. Per questo l’opera d’arte contemporanea fa molto spesso ricorso al mezzo elettronico – ars electronica (come recita il claim del festival di Linz)e al computer. Per mezzo di quest’ultimo è possibile ricreare spazi e ambienti e tempi virtuali – pensiamo all’ormai vecchio Prometeo di Luigi Nono ma anche al più recente film Matrix, un capolavoro del suo genere – i quali permettono al moderno ascoltatore e spettatore un coinvolgimento sensoriale allargato, esteso ai cinque sensi. È questa la cosiddetta augmented reality o enhanced reality. Andiamo oggidì nel senso opposto a quella della deriva scientista, o specialistica. Lo stesso dibattito (un meschino parapiglia, una risibile baruffa) tra sostenitori del vaccino e la torma imbufalita dei no vax mette a nudo le falle di una scienza che si voleva – che si sarebbe voluta, che si sarebbe desiderata – esatta. Torniamo (paradossalmente proprio grazie alla scienza e ai suoi prodigiosi ritrovati) a un mondo magico, o neomagico (la saga di Harry Potter, che al suo centro ha gli incantesimi e il gothic, può vivere e prosperare unicamente in virtù delle più sofisticate tecnologie dell’immagine: si tratta di un paradosso illuminante). Così oggi ci si inventa le tipologie più strane, più inconsuete, più pittoresche di ascolto e di fruizione della musica. Ci si reca sulle Dolomiti o sul cratere dell’Etna, in alta quota, solo per ascoltarvi il celebre violoncellista suonare la Ciaccona di Bach (della singolare esibizione beneficeranno le vacche, gli stambecchi, i pochi fortunati ascoltatori non malati di cuore.) Si indossa un giubbotto termico impermeabile per udire risuonare, dal proscenio del Politeama palermitano, il violoncello di ghiaccio conservato all’interno di una bolla refrigerata (polmonite garantita insieme al costo del biglietto). In Danimarca e in Florida due big band celebrano qualche importante anniversario suonando sott’acqua, rispettivamente tra banchi di sgombri in amore e flotte di pescecani in assetto di guerra. Un compositore scrive una Sonata per pianoforte lunga quasi sette ore, e siamo fortunati se non è il pianista ad assopirsi sulla tastiera prima del suo pubblico. Un altro scrive due concerti per 21 pianoforti allineati nella pubblica via, tra il viavai dello shopping pomeridiano e lo sguardo attonito dei turisti nipponici con la Nikon a tracolla. Un famoso pianista spasima per l’accordatura “stonata” di Francesco Antonio Vallotti e, davanti alle telecamere, fa suonare un insulso robottino meccanico al suo posto. Un altro pianista celeberrimo è solito esibirsi in concerto con la moglie, entrambi nudi come mamma li fece, entrambi bizzarramente stronfianti come cinghiali e ghignanti come iene maculate. Un violinista fa notizia inciampando sul suo prezioso Guadagnini, uno strumento che vale due milioni di sterline ma che, per fortuna, è assicurato: tutta pubblicità, tutto grasso che cola. La musica leggera non sfugge alla trappola delle stranezze confezionate su misura, si direbbe, per platee adoranti e osannanti e leggermente, se Lei mi permette, imbecilli. I Beatles si esibiscono su un tetto londinese, i Pink Floyd violano il sancta sanctorum delle rovine di Pompei, mentre il divo della folk music Johnny Cash sfodera tutta la sua grinta di bluesman disilluso nel carcere di San Quintino (e non sono forse come altrettante prigioni, io Le domando, le moderne sale da concerto, luoghi di pena tra le cui mura scrostate si consumano stanche liturgie e spettacoli logori come calzini?). Mi fermo, ma potrei continuare a elencare le bizzarrie di uno show business grottesco, ormai fuori controllo. Che cosa dobbiamo pensare di tutto questo? Una cosa essenzialmente. Gli strateghi della pubblicità non sanno più a quali santi affidarsi, essi sono, letteralmente, alla fame. Alla fine ci si prospetta lo spettro di un mondo privo di musica, di suoni, di luci, di colori, un mondo non più variopinto e cangiante ma bensì uniforme, grigio come lo è il crepuscolo, grigio così come lo scorgono gli abitanti di Pingelap, un atollo delle Isole Caroline, resi acromatopsici da un difetto genetico (ne parla Oliver Sacks in un suo bel libro). Il pubblico è come una specie protetta, ormai, presto o tardi destinata a estinguersi. Schönberg, scrivendo ad Alexander Zemlinsky, lamenta che ad assistere ai suoi concerti vi sia un pubblico in carne e ossa: “l’ascoltatore è presente e ciò mi disturba” (der Zuhörer stört mich), parole testuali, riferite alla lettera. Che cos’altro potrei dirle? Potrei risponderle col titolo di un saggio di Alex Ross, critico musicale del New Yorker: “the rest is noise”. Il resto, una volta abbassato il volume della musica presente sul pianeta, è rumore. Ciò che resterà saranno lo sbuffare degli ingranaggi, lo stridio delle bielle, lo strepitare delle automobili nel traffico cittadino, il ticchettio della vecchia pendola appartenuta al nonno, il gocciolamento dell’acqua piovana nelle gronde, il richiamo delle civette sui loro rami, l’abbaiare dei cani in qualche piazza deserta e assolata. Di musica nemmeno più l’ombra, nemmeno più l’eco. Allora, se posso prendermi questa libertà, sarebbe di gran lunga preferibile accompagnare nella tomba ciò che della musica avanza, ciò che di essa ancora resta, con le parole proferite, in punto di morte, dal nobile principe Amleto: “The rest is silence”. Tutto il resto è silenzio. Eppure. Eppure, si dimenticano sempre, nel citare le ultime parole proferite dall’erede del trono di Danimarca, quelle dell’amico Orazio. Il quale si accomiata dall’amico morente augurandogli che “flights of angels sing thee to thy rest”, che uno stuolo d’angeli ne accompagni il riposo. Ecco. Forse dopo la fine di questo mondo, accartocciato su sé stesso come una foglia vizza, collassato mentre produce il suo ultimo e strozzato singulto – not a bang but a whimper, parola di T.S. Eliot –, qualcosa ancora resterà. Resterà forse un tintinnio d’arpe. Resterà forse il peana degli angeli.